Interventi

Manca appena una settimana all’election day nel quale il popolo britannico sarà chiamato ad eleggere i membri del nuovo parlamento e del governo, incaricato di traghettare il Regno Unito fuori dall’Unione europea. Il paese, colpito da un recente attentato e diviso da tensioni interne, in che stato si avvicina all’appuntamento elettorale? E quali forze politiche saranno più capaci d’interpretare e dar voce ai bisogni ed alle ragioni dei cittadini? Ne discutiamo con Marzia Maccaferri, professoressa di storia politica presso la Goldsmiths University of London, esperta di politica europea ed autrice di numerose pubblicazioni in merito [1].
Iniziamo con la prima domanda. I dati raccolti dall’Oxfam ci dicono che il Regno Unito presenta un alto tasso di disuguaglianza tra la parte più ricca e quella più povera della società, secondo solo a quello degli U.S.A. Con un quinto della popolazione che svolge un lavoro sottopagato, quasi un quarto che vive sotto o al confine della soglia di povertà ed un’aspettativa di vita molto differente, circa trenta anni, tra gli abitanti dei quartieri più ricchi di Londra e quelli più poveri di Glasgow. La situazione economica e sociale è quindi davvero così terribile nel Regno Unito? E se sì, questo che peso ha avuto sulla Brexit e quale ne avrà sulle prossime elezioni?
La forbice della disuguaglianza economica e sociale evidenziata dai dati raccolti da Oxfam è certamente drammatica, ancor di più se inserita nel contesto di uno dei paesi più ricchi del mondo; paese peraltro che nel secondo dopoguerra è stato uno degli “artefici” dell’idea moderna di stato sociale. Essa è dunque totalmente inaccettabile.
Tuttavia, risulterebbe insufficiente se non fuorviante – come fanno ad esempio alcuni ambienti della sinistra radicale inglese – dipingere le profonde divisioni che percorrono il paese come una riproposizione “in scala” del modello statunitense. A mio modo di vedere si tratta piuttosto di una vicenda principalmente “interna”, molto più legata alla incapacità europea, e in essa anche britannica, di dare risposte alternative alla reiterazione dell’austerità come unica soluzione alla crisi del capitalismo globalizzato, e non soltanto il mero e vile trionfo del neo-liberalismo.
Anzi, il continuo accostamento che viene fatto fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, sia in chiave positiva o come comparazione in negativo, ci racconta in realtà come il discorso pubblico britannico nel suo complesso si stia lentamente ma fatalmente allontanando dall’Europa e (ri)allineando alla sfera anglo-americana considerata più “naturale”. Un processo storico questo iniziato decenni fa e che, forse, il referendum del giugno scorso ha reso inarrestabile.
È dunque nel perimetro più complesso del rapporto culturale e storico-politico fra Regno Unito e progetto europeo che dobbiamo andare a cercare una spiegazione più complessa per la decisione a favore della Brexit; e non, secondo me, applicando banalmente uno schema sociologico-economico. La frattura esposta dal referendum percorre trasversalmente i maggiori partiti inglesi e avrà molto probabilmente ripercussioni profonde nel sistema politico e sul modello Westminster. Non è un caso, io credo, che la campagna elettorale che stiamo osservando si stia combattendo maggiormente su una visione e interpretazione del passato, sia esso il Blairismo o il Thatcherismo, la guerra delle Falklands o la nascita dell’NHS che, al contrario, su una concezione del futuro. Non mi riferisco alle proposte avanzate nei manifesti elettorali i quali, va da sé, presentano con gradi differenti fra di loro una qualche proiezione in avanti, ma a quell’humus che esce dalla Tv e dalla stampa, sia quella becera dei tabloid nazionalisti che quella internazionale come il Financial TImes o l’Economist, e soprattutto sulla online-press che ha assunto oggi un ruolo fondamentale nel sistema britannico. 
Uno degli aspetti più delicati legato alle disuguaglianze è sicuramente quello dell’istruzione. Il Regno Unito ospita alcune fra le più prestigiose università del mondo, ma in merito all’organizzazione del suo sistema educativo, elementare (mi riferisco in particolare alla disputa sulle “grammar schools”, molto cara a Corbyn, ed all’obbligo della scuola di quartiere) e superiore, quali le critiche, se ve ne sono, legate al tema dell’uguaglianza? La ricerca inoltre è ben finanziata dal pubblico ed in maniera indipendente dagli interessi economici privati?
Anche in questo caso, come per quanto riguarda in generale il manifesto laburista, è curioso che il dibattito sulle grammar school sia interpretato come un tema corbynista e, quindi, per associazione radicalmente socialista, mentre in realtà è stata una delle battaglie principali di Tony Crosland e dei revisionisti degli anni ’60 (considerati fra l’altro fra i padri ideologici del New Labour).
Che l’aver ancorato la politica dell’istruzione esclusivamente all’idea astratta di meritocrazia senza tener presente gli aspetti enormemente divisivi del sistema di privilegi sociali legati al sistema educativo britannico sia una questione di uguaglianza, e che tale politica debba essere “riformata” è chiaramente un pilastro della battaglia laburista per una maggiore giustizia sociale. L’abolizione delle tasse universitarie nella contingenza attuale e in prospettiva dell’uscita dall’UE ha più un sapore propagandistico, sebbene si tratti anche in questo caso di un ritorno al passato (le fees sono state introdotte infatti nel 1998). Tuttavia, tutte le analisi evidenziano come il problema principale della crisi del sistema educativo inglese (diversa è la situazione in Scozia) sia legato alla carenza di personale docente. Enormemente sotto pressione e con un margine di flessibilità pressoché inesistente, gli insegnanti inglesi sono una categoria di lavoratori particolarmente a rischio.   
Altro elemento centrale dal punto di vista sociale è sicuramente lo stato della sanità pubblica, l’NHS, il quale, introdotto e potenziato dai governi laburisti del dopoguerra, ha subito molte trasformazioni negli ultimi anni, che ne hanno ridotto l’accesso per le classi meno abbienti. Ultima anche la proposta contenuta nel Manifesto Tory circa l’inclusione del valore degli immobili posseduti, nel computo per il limite massimo d’esenzione di pagamento per le prestazioni essenziali. Anche qui, quale è la reale situazione, e quanto le proposte dei partiti maggiori su una questione così centrale possono influenzare l’elettorato?
Il National Health Service ricopre un ruolo fondamentale non soltanto nel sistema politico e di governance del Regno Unito, ma è anche un pilastro dell’identità britannica. Certo, è stata una battaglia combattuta strenuamente dal partito laburista e una delle vittorie storiche e culturali del governo Attlee, ma è stato accolto, implementato e potenziato anche dai governi conservatori che si sono succeduti a partire dagli anni Cinquanta e la stessa Margaret Thatcher nel suo attacco neo-liberista non è riuscita a intaccarne le fondamenta ideali (non parlo qui di funzionamento, ma di accettazione culturale). Per questo Theresa May è stata costretta a fare una repentina U-turn facendo rientrare la cosiddetta “dementia tax” (vincolo dell’assistenza sanitaria al valore della casa oltre una certa fascia di reddito).
La vera domanda è quando e dove sono iniziati lo smantellamento e la privatizzazione dell’NHS. Anche in questo caso sono interpretazioni diverse di un passato recente che indica o nell’Europa o nel Blairismo o nella fallimentare esperienza del governo Cameron-Clegg i principali imputati.
È chiaro che è in questa parte del campo che si sta giocando molto della partita elettorale; basta fare un veloce confronto fra i principali manifesti, a prescindere da quali proposte siano sostenibili economicamente (la più ambiziosa è quella laburista che annuncia una iniezione straordinaria di 30 miliardi di sterline, in aggiunta alla curiosa – e molto derisa – proposta di concedere il parcheggio gratuito a parenti e amici in visita ai malati in ospedale). Sarà un tema sostanziale per l’esito delle elezioni? La recente rimonta di Corbyn è stata da molti interpretata in questa chiave. Il partito laburista può vincere puntando quasi esclusivamente su questo (come sembra fare)? Non credo sia sufficiente. A una settimana dal voto è emersa preponderante la questione dei costi sanitari dei cittadini britannici che vivono in paesi dell’Europa continentale, principalmente pensionati che usufruiscono di prestazioni gratuite grazie agli accordi fra stati dell’Unione. È chiaro che qui non si tratta soltanto di politiche di welfare, ma la variabile Brexit giocherà un ruolo-chiave.
Abbiamo accennato ad una discussa proposta dei Tories in relazione all’NHS, ma in maniera più generale, quali sono i punti centrali del programma dei Conservatori? Può essere considerato in linea con la tendenza neo-liberista o in parziale disgiunzione con essa, e quindi caratterizzato da un maggior sguardo agli interessi delle classi più povere e ad un accentramento dei poteri dello Stato?
Se la deliberata citazione a Beveridge e alle cinque sfide elencate nel suo famoso Piano qui aggiornate al clima post-moderno (Brexit, economia e tecnologia, divisione sociale e invecchiamento della società) possono indurre a pensare al superamento del più sfacciato neo-liberismo e thatcherismo, lo vedremo da quanto Theresa May riuscirà a tenere insieme un partito e un governo alquanto eterogenei, e in base al margine di maggioranza che otterrà (se la otterrà). Di sicuro, possiamo affermare che nel manifesto il richiamo populista c’è.
Eliminate le proposte più “coraggiose e contradditorie” che intendevano affrontare il “privilegio del pensionato e l’ingiustizia intergenerazionale” – come ha scritto il Guardian – rimane un manifesto abbastanza in linea con le posizioni tradizionali del partito, certo un po’ polemico con l’esperienza Cameron ma pure sempre nel solco del moderatismo, diremo noi italiani.
Quello che dal mio punto di vista di storica appare più interessante è il progetto che sembra paventarsi fra le righe di ricostruire il partito e il conservatorismo, e ovvio renderli egemoni ancora una volta, nell’era post-Brexit. Il richiamo a Beveridge va in questa direzione. Avendo già fagocitato completamente l’UKIP, questo manifesto ha l’ambizione di andare a stanare nelle sacche territoriali tradizionali l’elettorato Labour più debole – soprattutto coloro che hanno votato per la Brexit e che si sentono “lasciati indietro” dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica, dall’egemonia del cosmopolitismo. Una risposta conservatrice sovranista e paternalista per dare una sistemazione politica al malcontento e all’alienazione rivelata dal voto del referendum.
Di converso invece, quali sono i punti più importanti del Manifesto Labour, che dal titolo si propone di promuovere gli interessi dei molti (della classe popolare) contro i pochi (della classe dominante economico-politica), e di creare una società più premurosa e porre in atto una politica più gentile?
Anche qui una piccolissima dose di populismo non manca – For the many, not for the few. Ma senza, nessuno ha mai vinto le elezioni, soprattutto in un sistema elettorale così dis-rappresentativo come il maggioritario secco. Naturalmente, il succo della questione dipende da come si declinino i due pronomi: i “molti della classe popolare” possono essere dunque anche intesi come “working-class bianca inglese di sesso maschile”; ma questa è una questione che ha più a che fare con la cultura minoritaria e a tratti retrograda di alcuni settori dei sindacati inglesi.
L’aver trasformato sulla copertina del manifesto l’appello per una società “più premurosa” (un po’ paternalista come obiettivo per una sinistra che vuole governare in un momento di transizione così calcato una società multiculturale e in molti suoi segmenti radicalmente cosmopolita come quella britannica), in una società “più giusta” (una parola d’ordine capace di consociare tutte le varie anime, compresa quella blairiana, europeista e internazionalista, del partito) dà il segno dello sforzo inclusivo che Corbyn e suoi fedelissimi hanno cercato di fare negli ultimi tempi per contenere le spinte critiche e scissioniste all’interno del Labour.
In questa prospettiva il manifesto, dunque, è un esempio di compromesso. Ed è un buon compromesso. Non andrò a sviscerare le sue 128 pagine: le accuse di essere un programma dai tratti marxisti avanzate da alcuni esponenti tories sono tanto ridicole quanto la litania che la stampa britannica tutta è complice nel voler boicottare la rivoluzione corbynista, accuse che Momentum (il gruppo più fedele) e i vari movimenti più o meno giovanilisti che orbitano attorno al Labour sbraitano ormai da due anni.
Si tratta in realtà di un programma marcatamente keynesiano, ma che dopo anni di austerity e di tagli al welfare, e di dominio dell’idea che il prelievo fiscale sia uno strumento medioevale e anti-democratico, certo appare come una proposta “radicale”.
Alcune proposte erano dovute e, per fortuna, scontate: l’abolizione dei contratti a zero-ore e la tutela dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito. Altre imposte forse anche contro la stessa volontà del leader: la politica di difesa. Alcune ideologicamente interessanti, sebbene appaiano finanziariamente molto (troppo?) ambiziose a fronte di una non chiaramente sostanziata politica fiscale: la creazione di un sistema educativo unificato e l’abolizione totale delle tasse universitarie. Alcune hanno un sapore antico e fanno appello all’identità tradizionale dello zoccolo laburista: la nazionalizzazione delle ferrovie e delle poste. Altre sono inconsistenti e contradditorie: la politica industriale appare piuttosto naïve, mentre la proposta di contenere l’immigrazione “puzza” un po’ di protezionismo economico isolazionista. Alcune sono veramente curiose: l’istituzione di nuovi giorni di festa nazionale.
In generale, la fiducia acritica che il ritorno al primato dello stato su ogni altro aspetto della società e della polity comporti di per sé un progressivo miglioramento è forse la criticità più evidente. Tuttavia, l’aver scardinato l’assioma mercatista e reintrodotto il valore aggiunto del “fare politica come scelta di parte” è un passaggio rilevante.
Ho detto che si tratta di un buon compromesso. La questione è quale sia il suo obiettivo. Mi pare che alla luce degli ultimi sviluppi, si tratti di un compromesso per cementare la leadership di Corbyn “nel” partito – e non soltanto nei gruppi esterni o “su internet”. Ecco, vista la situazione da cui si partiva nel pieno di una inutile guerra civile all’interno della sinistra britannica si tratta, a mio modo di vedere, di una maturazione non irrilevante. 
In merito alla questione internazionale invece, con riferimento agli accordi con l’UE post-Brexit, al tema dei migranti, al rapporto con l’ONU, con le grandi potenze mondiali e con quelle emergenti, quali sono le posizioni dei due partiti dominanti, e dove differiscono in primis?
Sulla politica internazionale non si sono mai vinte le elezioni e, anche in questa particolarissima snap general election sebbene la Brexit sia un tema fra “interni” ed “estero”, non mi sembra ci siano novità rilevanti. Circa le differenze fra i due maggiori partiti su come gestire i negoziati con l’UE e su come lasciare in equilibrio la special relationship ai tempi di Trump, mi pare si tratti principalmente di schermaglie da campagna elettorale. 
Riferendoci proprio al tema elettorale, sul New Statesman del 15 maggio 2017 è stato pubblicato un interessante articolo di A. Gimson, dal titolo “Why the Tories keep winning?” [2]. In considerazione dei risultati delle ultime amministrative ed in vista delle prossime elezioni parlamentari, le giro allora la domanda, integrandola e modificandola in parte: perché i Tories dovrebbero riuscire nuovamente a vincere, e perché il Labour pare non poter essere destinato invece a farlo?
Il 31 maggio il Times ha pubblicato un sondaggio in cui per la prima volta si prospettava (ancora) un hung parliament. Se lo abbia fatto per spingere i conservatori riluttanti e gli indecisi a sostenere il governo e se questa tattica funzionerà lo vedremo il 9 giugno. Di certo Jeremy Corbyn ha ricordato a tutti, in Europa continentale e non, che la campagna elettorale conta ancora, che la si fa sul territorio, casa per casa e volantino per volantino, con proposte popolari e condivise, e che soprattutto serve un “partito strutturato” e non soltanto dei movimenti a sostenerla.
Ma come Neil Kinnock o Ed Miliband possono testimoniare, le politiche popolari non sono sufficienti. Il voto è difficilmente dettato da una scelta razionale, raramente determinato da singole proposte. Al contrario, è la pancia che fa decidere, l’impressione collettiva sul partito e sul suo leader hanno un ruolo determinante in un sistema elettorale maggioritario, come appunto dimostrano le recenti local elections.
La vera variabile di queste elezioni, il cui impatto ancora nessun sondaggio è stato in grado di quantificare, è la Brexit. All’indomani del primo confronto indiretto in Tv fra Jeremy Corbyn e Theresa May, nettamente dominato dal laburista, l’Independent attestando la vittoria del primo ha però anche ammesso che il pubblico presente avrebbe preferito Theresa May al tavolo dei negoziati con l’Unione Europea. 
C’è da chiedersi, forse, quale sarebbe ora la situazione se Corbyn invece di andare in vacanza avesse messo le stesse energie che sta dimostrando ora, nella campagna per il Remain. Ma questa, ormai, è un’altra storia.
Ultima domanda. Il recente attentato terroristico di Manchester quale effetto crede abbia avuto sulla società britannica e quali reazioni ha scatenato, a livello sia mediatico che di società civile? Il riferimento è per lo più ad eventuali critiche al governo, per la politica interna ed estera condotta, così come ad episodi di recrudescenza xenofoba, isolazionista e bellicista, o invece d’accoglienza e di pacifismo.
Non credo che abbia inciso più di tanto sulla campagna elettorale o che sia in grado di spostare le scelte di voto. Il Regno Unito ha dimostrato di saper ben maneggiare gli attacchi terroristici in termini di impatto sull’opinione pubblica e il pathos comprensibile che è seguito all’attentato è stato tutto sommato riassorbito. Nessuno dei maggiori partiti ha cavalcato il tema, e per quanto riguarda un’eventuale curvatura isolazionistica o, al contrario, interventista ecco, non sono esattamente argomenti da campagna elettorale.
Diversa la questione dell’accoglienza che si mescola con il tema dei migranti, europei e non, e dei richiedenti asilo. Ma anche in questo caso, non mi pare che le posizioni si siano ulteriormente estremizzate a causa dell’episodio di Manchester. Del resto, i conservatori si erano già “ukipizzati” a sufficienza, e al partito laburista non conviene di certo buttarsi su questa strada, aprendosi a critiche sulle sue contraddizioni interne.
[1] Qui la lista delle pubblicazioni scientifiche
[2] Qui l’articolo

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