Interventi

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

 

Di Teresa Numerico

In questo tempo di COVID-19 e forzato distanziamento sociale, faccio lezione sulla differenza tra infrastrutture e piattaforme, ai miei studenti a distanza, spaventati, confusi, ma costantemente presenti.

L’infrastruttura è un sistema complesso che serve a gestire la possibilità di accesso a un bene di uso pubblico. Lo standard di funzionamento può essere costruito dalla pratica, ma mantiene, di solito, un carattere interoperabile, gestisce un servizio di valore essenziale e pur potendo esercitare un interesse commerciale o una vera e propria situazione di monopolio naturale, la sua gestione dovrebbe avvenire nel contesto dei beni comuni. L’infrastruttura è sostenibile non perché commercialmente remunerativa. Il concetto di efficienza in questo caso si configura non come una valutazione della prestazione dal punto di vista della sua capacità di produrre ricavi superiori ai costi della sua gestione, ma rispetto all’universalità dell’accesso al bene o servizio che attraverso di essa viene fornito.

Nel caso della salute, quindi, l’infrastruttura del servizio sanitario nazionale manifesta la sua efficienza nella capacità di curare tutti quelli che ne richiedono i servizi, quando li richiedono, indipendentemente dai costi che questo comporta o implica per la collettività.

La piattaforma invece è tutt’altra cosa, sebbene anche lei possa, a certe condizioni, fornire servizi importanti per la collettività. La piattaforma è un sistema privato commerciale che si occupa di un bene o di un servizio, può essere piccola o grande, impone i propri standard di funzionamento, richiede che gli utenti la scelgano per il servizio, è costruita a fini commerciali, per produrre profitti. Talvolta viene superficialmente percepita come universale e costruisce contesti che fanno pensare a monopoli o oligopoli, per via dei costi di accesso che da un certo punto in poi si instaurano per la concorrenza, come nel caso della ricerca sul web, o in quello dei social network di maggior successo.

Lo vediamo con chiarezza nel caso dell’educazione a distanza. La scuola e l’università che si sono trovate improvvisamente obbligate a svolgere la propria funzione a distanza, non solo fanno affidamento sulla possibilità che sia attiva la connessione a banda larga e che tutti abbiano a disposizione dei dispositivi tecnologici in grado di ricevere il servizio educativo (come ha notato giustamente Vincenzo Vita in L’inganno a banda larga, articolo uscito su “il manifesto” del 25 marzo 2020); ma hanno bisogno di piattaforme per incontrare gli studenti in teleconferenza. Tali piattaforme sono in larga misura proprietarie e private. Si va da Microsoft Teams, a Google Meet, da Zoom, a Hangout, passando per Skype o per Adobe Connect o per altri strumenti simili. Molte lezioni vengono anche registrate e poi pubblicate usando queste o altre piattaforme proprietarie. Gli studenti mi hanno chiesto perché non facessi la diretta Facebook, suggerimento che non ho accettato, e hanno comunque ottenuto che mettessi la registrazione delle lezioni su Youtube, sia pure con i link unlisted, per non far circolare le lezioni a quelli che non hanno il link diretto alla videoregistrazione. Ma questo vale anche per tutta l’attività della pubblica amministrazione che si svolge in smart working. Sono compiti delicati vanno dalla scuola all’università, dall’erogazione dei servizi fino alle conferenze stampa notturne del Presidente del Consiglio. Tutto è passato dalle piattaforme digitali proprietarie, costituendo un precedente non troppo rassicurante. Eppure, i dati e i contenuti che transitano su di queste, sono di loro proprietà e possono essere oggetto di sfruttamento commerciale, come è scritto esplicitamente nei termini d’uso che dobbiamo accettare se vogliamo accedervi. Il mercato si insinua nell’infrastruttura della formazione di alto livello, al punto che le università fanno esplicito riferimento ai marchi delle piattaforme per indicare dove e come fare lezioni ed esami a distanza.

La piattaforma, cioè, non eroga un servizio a vantaggio della collettività, ma lo offre con lo scopo commerciale di sfruttarlo. Ne acquisisce la proprietà intellettuale. Si tratta quindi di una modalità della tragedia dei beni comuni. Chi ha la forza di recintare quegli spazi può sfruttarne il valore, o meglio ne istituisce un valore commerciale, nel momento in cui fornisce gli spazi per ospitarlo.

Le piattaforme, quindi, in questo frangente si comportano come fornitori di una infrastruttura universale, vicariando l’assenza dell’istituzione pubblica che non è preparata a offrire i servizi pubblici nella necessità di istituire il distanziamento sociale. Ma restano a tutti gli effetti piattaforme che usano quell’offerta di servizio ‘gratuito’ a proprio beneficio sia commerciale, sia di accesso e appropriazione di dati che potranno essere ulteriormente oggetto di mercificazione.

Tale ambivalenza è molto pericolosa, così come è pericolosa l’assenza dell’istituzione pubblica nel garantire l’infrastruttura necessaria al servizio, sia in termini di banda e di risorse tecnologiche, sia in termini di repository pubblici da usare per i contenuti pubblici (scuola, università, pubblica amministrazione).

È bene allora fare molta attenzione a non creare ulteriori ambivalenze intorno a come si debba svolgere un servizio pubblico, quale ne sia il fine e chi sia il soggetto che lo controlla. È possibile negoziare adesso i termini della relazione pubblico privato, ma deve essere fatto con fermezza e senza timidezza. È urgente riflettere alla società che vogliamo usciti dalla crisi prodotta dal virus, per non trovarci in un universo sottosopra in cui i servizi pubblici sono controllati da privati, proprio quando l’emergenza sanitaria ha mostrato la loro importanza come beni comuni. Si tende a porre la questione come un conflitto tra tutela della salute e diritto alla privacy, ma questa alternativa non ha senso. Solo tutelando i dati sanitari come dati sensibili è possibile garantire ai malati di non essere discriminati per la propria condizione e a tutti di essere curati allo stesso modo. È possibile monitorare i contatti tra le persone senza per questo infrangere il diritto che questi dati non siano usati per altri scopi che esulino dalla tutela della salute in senso stretto. Si può, cioè, evitare che i dati raccolti per il monitoraggio continuo vengano mercificati, commercializzati o usati in modo discriminatorio.

La sanità pubblica ha mostrato di essere un servizio universale fondamentale. Come osserva Eva Illouz nell’articolo L’insostenibile leggerezza del capitalismo per la nostra salute, (tradotto dal francese e pubblicato il 26 marzo 2020 su “Atlante”). Senza salute non possono sopravvivere né la finanza, né l’economia, perché questa è la condizione di possibilità di tutto il resto. Tale condizione implicita, data per scontata fa saltare ogni equilibrio e sovverte ogni continuità della nostra vita quotidiana, ma può essere garantita solo dal servizio pubblico. È solo nella fiducia che il futuro sarà accessibile che è possibile il profitto dell’impresa capitalistica e la gestione della finanza globalizzata. Tagliare sulla spesa sanitaria, come è stato fatto in passato in Italia e in altri paesi occidentali in nome dell’efficienza e della razionalizzazione della spesa, in larga parte in favore delle assicurazioni e della sanità privata, è stata una mossa irrazionale e a conti fatti inefficiente per la società nel suo insieme.

Un banco di prova della pericolosa e ambivalente commistione tra necessità dell’infrastruttura e intermediazione di piattaforme proprietarie è offerto dai dispositivi per il monitoraggio continuo della popolazione ai fini di rintracciare i potenziali contatti delle persone contagiate.

Sappiamo che in Cina la politica per il tracciamento e la sorveglianza delle persone è molto stringente. Non solo esistono app che identificano univocamente tutti i cittadini e seguono ogni loro movimento, ma i dati raccolti attraverso questi software – che le tutti sono obbligati a usare – sono incrociati con una fitta rete di telecamere di sorveglianza. Tutte le informazioni sono poi incrociate con potenti software di Face recognition che secondo il governo cinese sono in grado di riconoscere le persone anche se usano la mascherina. I dati sono raccolti da app sotto controllo governativo e costituiscono un potente sistema di sorveglianza. Si tratta di un’infrastruttura pubblica di tracciamento che però finisce per eccedere dalla sua funzione e per diventare la scusa attraverso la quale lo Stato autocratico cinese si arroga il diritto di controllare tutti gli abitanti del paese. I sistemi di monitoraggio somigliano a quelli usati per tenere sotto controllo il bestiame inviato al pascolo, quando non viene presidiato direttamente dai pastori. Questa somiglianza ci inquieta e ci disorienta.

Nel caso della realtà asiatica, secondo Byung-chul Han (22 marzo 2020 – El País https://elpais.com/ideas/2020-03-21/la-emergencia-viral-y-el-mundo-de-manana-byung-chul-han-el-filosofo-surcoreano-que-piensa-desde-berlin.html), siamo di fronte a società con spiccato senso della collettività, prive di una cultura individualista, nella quale i cittadini tendono a nutrire una fiducia piuttosto acritica nei confronti dello Stato, ma cosa accadrebbe se tali sistemi venissero implementati in Italia? Quali sarebbero le garanzie che dovrebbero essere offerte per un sistema di monitoraggio continuo degli spostamenti? Il Ministero dell’innovazione ha lanciato un bando per suggerire soluzioni che vadano in questo senso e il Garante per la Privacy ha dichiarato che, purché siano rispettate le limitazioni di tempo, è possibile derogare al GDPR e raccogliere non solo dati aggregati anonimizzati, ma anche dati personali ai fini della lotta alla pandemia e per il tempo strettamente necessario.

È molto importante che nell’implementare le misure di monitoraggio attivo delle persone si rispettino i diritti civili e democratici. Bisogna pensare a questi sistemi di tracciamento come a delle infrastrutture che usano i dati come beni comuni, solo quelli strettamente necessari e per il motivo specifico per il quale sono raccolti. Ogni altra soluzione basata su piattaforme più o meno autorizzate dal pubblico a questo scopo, senza aver chiarito e regolamentato correttamente il rapporto di possesso e la licenza di utilizzo di questi dati causerebbe l’infrazione non della normativa sulla privacy, ma dell’habeas corpus, una delle istituzioni giuridiche che ha salutato non tanto le società democratiche, ma l’avvio stesso dell’età moderna.

Devil is in the details. Quindi quando si sceglierà lo strumento da utilizzare per la sorveglianza attiva e il monitoraggio dei potenziali contagi e dei loro contatti bisognerà stare attenti ai dettagli e pensare a come costruire l’infrastruttura a solo beneficio della collettività e non a vantaggio di finti servizi universali che malamente nascondono intenti commerciali e di sfruttamento.

La tecnologia è un sistema di regolazione, anche quando è basata su nuove conoscenze, la sua funzionalità dipende dalla capacità di riorganizzazione del mondo esterno per permetterne l’esito desiderato. Il sistema di regolazione giuridica e il processo di implementazione delle pratiche che è determinato dalla mentalità deve costruire confini e potenzialità a beneficio della collettività. Il fatto di avere una Ferrari non mi dà diritto a correre a trecento all’ora in città, anche se la macchina è in grado di raggiungere quella velocità. È la collettività a stabilire a vantaggio di tutti le regole di utilizzo di un sistema tecnico, non le possibilità teoriche delle prestazioni tecnologiche.

Questa distinzione da sola non è ancora sufficiente. È necessario anche che lo Stato non abbia volontà e carattere autoritario, come avviene per il sistema cinese per esempio, quando implementa la sua infrastruttura. Lo spazio dei servizi comuni deve essere concepito come spazio pubblico, in cui lo stato vigila che non avvenga nessun tipo di appropriazione indebita. La collettività non può essere espropriata del suo valore, per il fatto che questo valore è accessibile a tutti.

È sulla scommessa di mantenere l’equilibrio tra tutela dei beni e dei servizi comuni e lotta all’espropriazione da parte del più forte che si devono confrontare infrastrutture e piattaforme entro un sistema di regolazione che sappia offrire le garanzie democratiche di giustizia.

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Un commento a “Infrastrutture e piattaforme alla prova del virus”

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