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L’onta del Covid

Durante l’emergenza sanitaria si è costruita una narrazione poggiata su un vago spirito d’unità nazionale, il culto del capo, l’esaltazione dell'eroismo e del vigore fisico, che tende a disinnescare il conflitto e a rimettere al centro del palcoscenico politico il discorso delle destre
Pubblicato il 28 Maggio 2020
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L’emergenza causata dal coronavirus ha certamente esposto tutta la società a un surplus di comunicazione dando vita a una sorta di narrazione prevalente della quale si possono evidenziare alcuni elementi principali.

In primo luogo, come spesso avviene in casi emergenziali, c’è stata la rincorsa al senso di unità nazionale, antica retorica dietro alla quale ogni volta si nasconde la narcotizzazione del conflitto, quindi sia della capacità di avanzare critiche forti al governo, sia di dar voce a chi, trovandosi in condizioni già svantaggiate nella società, ha solo il conflitto per farsi sentire. L’unica forma di opposizione conflittuale ai provvedimenti governativi è venuta soltanto dai carcerati e dei loro familiari. Diverso è il caso delle organizzazioni degli industriali che invece con altri mezzi hanno persuaso il governo a rendere blandi i provvedimenti che li riguardavano.

Lo spirito di unità nazionale ha trovato così anche altre forme di espressione come il tricolore esposto dai balconi e le serenate con l’Inno di Mameli. Questi elementi si sono unificati in un più generale postnazionalismo prêt-à-porter, un moto identitario cinico e grottesco più che solidale, un fenomeno che ha visto un’anteprima l’estate scorsa al Papete, con cubiste che ballavano l’inno nazionale mixato dai dj in onore di Salvini.

Sintonizzati su questa frequenza, alcuni organi di informazione, come il Tg2, hanno addirittura scomodato il Risorgimento (le Cinque giornate di Milano) e il Piave, celebrandoli come momenti nei quali il popolo italiano ha dato prova di grande orgoglio e valore, come se per vendicare l’onta del Covid bastasse dichiarare guerra all’impero asburgico.

In secondo luogo, è emersa una celebrazione mediatica del capo, dell’uomo solo al comando, della verticalità. Ciò è stato dovuto sia alla povertà espressiva del giornalismo italiano, specialmente quello televisivo, sia alla sovraesposizione mediatica di Giuseppe Conte che è stato raccontato come uno statista in grado di salvare la patria. Che poi ciò non sia avvenuto è un altro discorso; del resto quasi sempre i leader che cercano di apparire forti nascondono la loro grande impotenza e incapacità politica.

C’è poi da sottolineare come la bulimia di conferenze stampa, con annesso annuncio di decreto, sia stata orchestrata da Casalino con molta premura per far acquisire visibilità e consenso a Conte, a cominciare dalla scelta dell’orario, sempre in prime time, durante le edizioni serali dei Tg. In questa operazione l’avvocato del popolo ci ha messo del suo, sfoggiando una miseria lessicale, con la caduta del lessico istituzionale a favore di un registro linguistico minore (“movida”), con tono paternalistico, o pseudoamicale, con slang e troppi termini anglosassoni, che poi sono uno dei primi sintomi della provincialità.

Al “capo” Conte hanno poi fatto il verso i presidenti regionali e i sindaci, ciascuno con idee diverse e bramosia di comandare. Così la narrazione si è riempita di questi accattoni della scena mediatica, dall’istrionico De Luca al melodrammatico Fontana. Ma non solo, la televisione, per esempio, ha esaltato, nel tipico circolo vizioso dell’autoreferenzialità, alcuni video privati, lanciati da sindaci sconosciuti attraverso i propri social, pieni di termini vernacolari ed espressioni volgari. Tutto in nome di un inintelligibile “buon senso”.

In terzo luogo, questa decadenza comunicativa è andata di pari passo con una retorica militare, che ha utilizzato immagini, metafore e parole tipiche di una guerra, facendo paragoni molto arditi tra conflitto e pandemi. Ecco, allora, il “coprifuoco”, i supermercati con gli scaffali vuoti, l’evocazione della trincea (gli ospedali), le persone “in prima linea” (medici e sanitari), i checkpoint, i “bollettini” della Protezione civile, la “potenza di fuoco” (Conte), “il lanciafiamme” (De Luca), il “sacrificio”, le “task force”. A ciò si aggiungano le drammatiche immagini dei camion dell’esercito e quelle dei militari per strada. Il tutto senza mai pensare alla infondatezza dell’equazione guerra-Covid. A meno che non si voglia pensare che Tripoli sia uguale ai navigli senza happy hour.

Il quarto elemento da segnalare è l’eroismo. La romantica e cavalleresca celebrazione dell’eroe che va a morire per compiere il suo dovere ha vestito il camice dei medici. Nulla da dire a chi svolge o ha svolto il proprio dovere, anche a caro prezzo, mai però in questo paese si sprecano parole per operai morti sul lavoro, come se non compissero anche loro il proprio dovere. C’è poi da dire che l’eroismo è una categoria ideologica che innalza i suoi soggetti e li rende dei miti, ponendoli al riparo da ogni critica. E l’impossibilità della critica è una spia che indica il pericolo dello scivolamento in contesti non democratici.

Infine c’è stata una inconsapevole esaltazione della giovinezza e della forza fisica. Il Covid, com’è noto, ha colpito maggiormente le persone più anziane e quelle con condizioni di salute più precarie. Inversamente, è come se avesse detto che solo i giovani e sani possono sconfiggere il virus.

Patriottismo, culto del capo, militarismo, eroismo, esaltazione della giovinezza e della forza. Sono questi alcuni elementi che emergono dalla narrazione fatta in oltre due mesi di emergenza Covid. Si tratta di valori tipicamente di estrema destra. Per ora sono stati espropriati dalle mani di Salvini e Meloni che, visto anche il cambio di “nemico” (non più gli immigrati ma il virus) mostrano un po’ di difficoltà. Ma se si diffondono questi valori, alla lunga i legittimi proprietari pretenderanno il conto. E sarà un conto salato.

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