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I numeri dell’affluenza. Trame e orditi della rappresentanza democratica

Un’analisi comparata dei flussi della partecipazione elettorale in alcune democrazie contemporanee

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1. Le cifre dei turnout

All’interno del variegato e complesso panorama politico occidentale, animato da inattesi sconvolgimenti ed ineludibili persistenze, un elemento pare insorgere con particolare significanza: la forte e tendenziale diminuzione della partecipazione dei cittadini al voto.

A tale problema si affianca correlativamente un’altra questione annosa, ovvero l’impossibilità per i governi di godere di una maggioranza stabile in parlamento, garantita dalla prevalenza di una data forza politica rispetto alle altre. A fortiori il modello duale di opposizione ed alternanza tra le classiche forze progressiste e conservatrici pare essere interrotto dalla presenza di un tri-partizione o pluri-partizione delle forze parlamentari maggiormente rilevanti.

Seppur con proporzioni e forme diverse, questi due aspetti sono evidenziabili all’interno di quasi tutti gli Stati occidentali o nei quali viga l’ordinamento democratico-liberale.

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Osservando i rilievi statistici si ha contezza della veridicità di tali affermazioni. I dati storici relativi alle elezioni parlamentari in alcuni dei paesi più importanti d’Europa mostrano infatti come la media dell’affluenza al voto, calcolata sul totale dei legalmente aventi diritto, sia diminuita significativamente quasi ovunque. dal momento delle prime elezioni libere ad oggi, con un particolare peggioramento a partire dagli anni Ottanta1.

Prendiamo ad esempio l’Italia, dove nel 1946 si registrava un’affluenza pari all’89%, cresciuta fino ad un massimo del 93,9% nel 1953 e rimasta stabile fino al 1976, quando inizia a decrescere con costanza fino all’86,1% del 1994 e poi a diminuire in maniera più precipitosa prima nel 1996 (82,6%) e poi nell’ultima tornata del 2013, la quale fa registrare il record storico più basso con il 75,2%. Si potrebbe interpretare che vi sia stata un’entusiastica partecipazione al voto non appena instauratasi la Repubblica, in leggera ma continua crescita negli anni dei grandi cambiamenti sociali, tra gli anni Cinquanta e i primi Settanta. L’inizio di un gradiente negativo si manifesta alla fine di quest’ultimo decennio, quando iniziano ad essere percepiti i danni del rallentamento economico ed il peso delle riforme strutturali, nonché il trasferimento alle istituzioni europee di alcune fondamentali politiche. Questi elementi trasformativi percorrono tutti gli anni Ottanta e Novanta, durante i quali ad essi si aggiungono episodi drammatici legati alla mafia, al terrorismo ed alla delegittimazione delle ideologie e delle strutture stesse dei partiti tradizionali, travolti poi da “Mani pulite” e dalla caduta dell’URSS. Da ultima come cause della forte diminuzione d’affluenza registrata alle ultime elezioni, è plausibile indicare la crisi economica ed istituzionale del 2011 e le vicende politiche che ad essa fecero seguito.

Simili appaiono le parabole di paesi prossimi al nostro per cultura e popolazione come Spagna e Francia, seppur con due rilevanti differenze: un afflusso medio più basso ed una maggiore irregolarità.

Per quanto riguarda la Spagna la percentuale massima del 78,06% è raggiunta nel 1986, anno d’entrata nell’UE e nel quale è in pieno corso il piano di sviluppo economico e social-democratico di Felipe González. Cifre abbastanza alte si registrano negli anni 2000 della grande espansione economica, ma ricadono al 68,9% nelle elezioni post-crisi, rimanendo sostanzialmente invariate (69,8%) alle elezioni del 2016, meno partecipate di quelle del 2015 (73,2%).

In Francia invece la partecipazione si è mantenuta stabile intorno all’80% fino al 1973, ad esclusione del 1962, anno dell’indipendenza Algerina e della riforma presidenzialista di De Gaulle. Dal 1978 in poi, similmente che in Italia, inizia una forte diminuzione dell’affluenza che procede linearmente, con accelerazioni e fasi di rallentamento, fino a giungere al dato clamoroso del 42,64% nelle elezioni parlamentari del 2017. Va aggiunto che i dati riguardanti le elezioni dirette del Presidente della Repubblica pur sensibilmente più alti di quelli delle parlamentari, hanno seguito il medesimo andamento, tanto che l’affluenza nel 2017 è stata la più bassa di sempre, ferma al 74,6%.

Parzialmente diversa è la situazione di Germania e Regno Unito. Seppur le due nazioni fanno registrare infatti un’affluenza media differente, con la prima sulla linea di quella italiana, e la seconda di quella francese, entrambi paiono evidenziare un leggero ma sensibile aumento nel numero di votanti alle ultime elezioni parlamentari (76,1% in Germania e 68,9% nel Regno Unito, rispettivamente +4,6% e + 2,7% rispetto alle ultime tornate), comunque inferiore per entrambi ai picchi degli anni Cinquanta e Settanta (massimo raggiunto pari all’83,6% nel Regno Unito nel 1950 e pari al 91,1% nel 1972 in Germania).

Paesi con maggiori stabilità ed affluenza sembrano essere il Belgio od il Lussemburgo, che, al netto di minime variazione, hanno costantemente mantenuto un numero di votanti intorno al 90% degli aventi diritto.

Simili appaiono i dati degli Stati del Nord Europa, anche se qui le variazioni nel tempo sono più marcate in paesi come l’Islanda o la Svezia, caratterizzati il primo da una grave crisi economica e da scandali politici negli ultimi anni, ed il secondo da un periodo come leader dell’avanguardismo progressista negli anni Settanta-Ottanta. A ciò sono corrisposti rispettivamente una significativa decrescita dell’affluenza a partire dal 2007 e da un picco invece dell’affluenza al 91,8% proprio nelle elezioni del 1976.

Di segno opposto è invece l’esperienza degli Stati dell’Europa Orientale, soprattutto nei paesi appartenenti o vicini all’ex-URSS, dove ad un numero medio di votanti mediamente molto basso, intorno al 50% degli aventi diritto, si accompagna una fortissima incostanza ed una netta decrescita tendenziale, soprattutto negli ultimi anni. Casi emblematici paiono essere la Polonia o l’Albania, passate rispettivamente dal 98,9% del 1980 al 50,9% del 2017, e dal 98,9% del 1991 al 46,8% del 2017.


2. L’interpretazione dei dati

Consapevoli del fatto che il ricavare dalla lettura dei dati statistici una serie di considerazioni che ne spieghino l’andamento e le inter-connessioni probabili sia una delicata operazione da svolgere con particolare cautela ed accuratezza, è comunque possibile azzardare alcuni ipotesi descrittive, in merito alle informazioni sopra fornite.

In primo luogo, pare potersi affermare che l’affluenza alle urne sia maggiore nei momenti di maggior benessere economico ed in periodi nei quali siano poste in essere manovre redistributive. Non a caso, i picchi massimi in quasi tutto l’occidente si registrano tra gli anni Sessanta e Settanta. Al contrario, a manovre economiche restrittive ed a periodi di crisi economica corrisponde sempre una significativa decrescita dell’affluenza.

In seconda istanza, i picchi di maggiore affluenza si registrano, soprattutto nelle democrazie liberali di più recente formazione, in corrispondenza dei primi cicli elettorali. È il caso in particolare della Spagna, del Portogallo, degli stati delle ex-Blocco Sovietico, ma anche dell’Italia. Più in generale ci si può riferire l’afflato di vera o presunta libertà che segue ad un periodo drammatico, come una dittatura od una guerra.

In terzo luogo, è possibile evidenziare come negli Stati con una tradizione democratica più duratura ed una linea politica più stabile, l’affluenza sia maggiormente costante, mentre risulta essere altamente irregolare e tendenzialmente volta a crescere e soprattutto a decrescere con grande rapidità nelle democrazie più immature od incomplete, dove le politiche sono poco incisive ed ancor meno programmatiche.

In ultimo, l’affluenza è generalmente più alta negli Stati dove la condizione economico-sociale dei cittadini sia migliore, vi sia meno disuguaglianza economica, un più alto livello d’istruzione medio ed una minore conflittualità interna.

Lo schema descrittivo di massima ricavato dall’intersezione dei parametri storici, culturali, sociali ed economici indicati può essere utile per spiegare ad esempio come Stati con livelli di benessere simili ma ordinamenti politici differenti, o formatisi in periodi storici differenti, possano avere percentuali d’affluenza talvolta molto diverse fra loro.

Il Belgio che è una democrazia solida, con un’economia stabile, un ottimo livello d’istruzione ed un buon grado di equità sociale ha un’affluenza media superiore al 90%. Nel Regno Unito dove la disuguaglianza è più alta2, l’affluenza è intorno al 70%. In Albania dove purtroppo la situazione sia politica, che economico-sociale è ben peggiore ed oltretutto la cultura democratica è ancora molto immatura l’affluenza è inferiore al 50%.

Tale schema pare funzionale anche nell’analisi di paesi extra-europei, con contesti culturali, i quali, pur mantenendo una forma democratica equivalente, presentano differenze socio-culturali non trascurabili.

Se prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, un paese stabile e con una democrazia consolidata, ma molto frazionato e con un alto tasso di disuguaglianza, l’affluenza alle elezioni legislative è intorno al 65% per i turni che coincidono con le presidenziali ed inferiore al 50% per quelle di mid-term. Dall’89,6% del 1968 si è arrivati al 65,4% del 2016, passando per il 42,5% del 2014. Per le presidenziali il crollo è stato più o meno equivalente. Si è infatti passati dal 95,8% del 1964 al 65,4% del 2016. In maniera direttamente proporzionale è invece aumentata la disuguaglianza economica3.

Se prendiamo invece uno stato altrettanto stabile, ma certamente più equo4 come l’Australia, l’affluenza al voto, benché anche qui in discesa (dal 96% del 1954 al record negativo del 91% del 2016), si mantiene comunque molto alta.


3. Il raffronto Svezia-Finlandia

Seppur concessa generale validità a tale schema, è però d’uopo evidenziare che accanto ai fattori economici, storici, sociali e culturali, vi sono altri elementi capaci d’influenzare l’affluenza al voto, alcuni puramente contingenti, di solito poco influenti, come il maltempo, ed altri più puramente formali, ovvero attinenti ad uno specifico sistema partitico-istituzionale od anche meramente elettorale.

Interessante in questo caso è il raffronto tra due stati scandinavi, Svezia e Finlandia, che condividono oltre ad una storia ed una cultura affini, anche dei similari modelli politico e socio-economico. I due stati presentano infatti una forte discrasia relativa ai dati sull’affluenza. Laddove in Svezia la media si aggira intorno all’85% (85,8% nel 2014), in Finlandia è invece di circa 20 punti più bassa (66,9% alle elezioni del 2015).

Uno studio specialistico condotto sul caso5 tende a dimostrare che “la differenza del sistema elettorale tra Svezia e Finlandia sia il fattore più rilevante del perché la prima abbia una maggiore affluenza rispetto alla seconda”6. I due sistemi, entrambi monocamerali, divergono non di molto, sono infatti entrambi proporzionali, con quello finlandese leggermente più distorsivo di quello svedese.

Quest’ultimo presenta infatti un proporzionale basato su una modificazione del metodo Sainte-Laguë (con divisore uguale a 1.4x+1, anziché a 2x+1), con 310 seggi da assegnare su 29 circoscrizioni ed altri 39 seggi da assegnare invece su base nazionale, con funzione compensatoria rispetto alla distribuzione su scala locale. La soglia di sbarramento è del 12% per le circoscrizioni e del 4% a livello nazionale. I partiti a concorrere per i seggi sono 6 o 7 e sulla scheda è possibile indicare il nome del candidato che si vuole eleggere7.

Il sistema finlandese adotta invece il metodo proporzionale D’Hondt (con divisore uguale a x+1), che è di fatto molto simile ad un Sainte-Laguë modificato, ad unico turno, con 200 seggi in palio. Non vi è soglia di sbarramento, così da favorire i piccoli ed i grandi partiti all’interno di circoscrizioni rispettivamente ampie o ristrette. Vi sono una decina di partiti a concorrere per i seggi, i quali possono coalizzarsi fra di loro e partecipare alla ripartizione come se fossero un’unica lista. Anche qui è possibile per indicare sulla scheda il candidato preferito8.

Risulta corretto sottolineare come in linea generale un sistema proporzionale, garantendo una più diretta corrispondenti fra voti espressi e seggi assegnati, permetta l’esistenza di una maggiore varietà ideologica fra i partiti e favorisca l’espressione di un voto maggiormente legato alle proprie posizioni, piuttosto che il cosiddetto “voto utile”.

Nonostante ciò, la presenza in Finlandia di un metodo d’attribuzione dei seggi più distorsivo e di un elevato numero di partiti hanno reso e rendono il parlamento più frazionato ed incapace di esprimere una maggioranza stabile. Ciò induce quindi frequentemente alla creazione di coalizioni post elettorali, cosa che potrebbe essere considerata un fattore in grado di scoraggiare il voto facendolo apparire meno influente sulla formazione di una delineata maggioranza governativa9.


4. L’incidenza degli elementi formali sullo spettro demoscopico

Se un particolare sistema elettorale può influenzare fortemente la percezione di utilità del proprio voto e determinare dunque importanti variazioni, simile ragionamento può svolgersi per altri particolari elementi formali, capaci di fungere da ostacolo o da incentivo alla partecipazione stessa.

Per l’ipotesi ostativa si può prendere ad esempio la registrazione non automatica alle liste elettorali ed in maniera ancor più accentuata un complicato e magari oneroso procedimento di registrazione. Emblematico in merito è il caso degli Stati Uniti, dove vi è una procedura differente per ogni stato10 e la discrasia tra popolazione registrata e quella potenzialmente idonea al voto è di circa il 15%; una percentuale direttamente proporzionale al decrescere dell’affluenza. Per il 2016 ad esempio su una popolazione di 323.995.528 abitanti, di cui 250.293.421 in età per votare, si sono registrati 214.109.367 e di questi solo 140.114.503 si sono recati alle urne. Tale sistema ha ricevuto molte critiche per la sua inefficienza11 e la disfunzionalità rappresentativa che inficia soprattutto la partecipazione degli appartenenti alle fasce più svantaggiate della società12.

Per l’ipotesi opposta, quella incentivante, si può invece individuare l’elemento dell’obbligatorietà legale del voto, soprattutto laddove si preveda una pesante sanzione in caso d’inadempienza. Paradigmatico è l’esempio dell’Australia, dove è presente una complessa procedura di controllo ed è prevista una sanzione pecuniaria per chi non adempia al dovere civico del voto13. Contrariamente ad una procedura complessa di registrazione alle liste elettorali, l’obbligatorietà rafforzata del voto pare favorire la partecipazione delle fasce di popolazione più povera14.

Alcuni studi riconoscono proprio all’obbligatorietà e alla facilità delle procedure di espletamento del voto una capacità di mobilitazione dei ceti sociali meno istruiti e più svantaggiati, superiore addirittura all’azione dei sindacati, delle associazioni e dei partiti di sinistra15.

A completamento di tali analisi, può essere utile un breve approfondimento demoscopico, che illustri il numero di votanti divisi per fascia d’età e di reddito.

In primo luogo, è possibile osservare quanto ampio sia in tutti i paesi occidentali, il divario percentuale di votanti tra gli appartenenti alle classi più agiate ed i facenti parte invece a quelle più povere. Si passa dai pochi decimali di distanza in Australia o Lussemburgo ai 23,6 punti percentuali negli Stati Uniti, con un media dei paesi OCSE all’8,4%16.

In seconda istanza, si può osservare invece come in quasi tutti gli Stati occidentali la percentuale d’affluenza al voto dei giovani tra i 18 e i 24 anni sia inferiore a quella degli adulti tra i 25 e i 50. Ad eccezione infatti di pochi casi quali il Belgio o l’Australia, dove vi è una sostanziale parità, la differenza nei paesi OCSE è in media del 16%; in Italia è ad esempio al di sotto del 10% mentre nel Regno Unito sfiora il 40%. Oltretutto circa un giovane su quattro dichiara di non essere interessato alla politica17. I dati statunitensi confermano inoltre la generale tendenza che vede un aumento nella percentuale d’affluenza al voto direttamente proporzionale al crescere dell’età18.

Tabella dati OCSE


Tabella dati United States Election Project


5. L’analisi politica

Con l’ausilio dei dati analizzati e sulla base di alcune considerazioni già svolte, è possibile elaborare un’ipotesi di lettura circa la situazione attuale, che come accennato in apertura, vede di pari passo ad una diminuzione generale dell’affluenza alle urne, un aumento dell’instabilità governativa e del frazionamento partitico in parlamento.

Questi due ultimi aspetti sembrano aver contribuito a rafforzare la convinzione, formatasi durante gli anni del lungo periodo di crisi economica, che l’azione dei governi sia in ogni caso inefficace nel rispondere ai bisogni della popolazione e che non vi sia alcuna differenza in campo economico tra le politiche del centro-destra e del centro-sinistra. Se da una parte tale insoddisfazione ha generato un aumento dell’astensione al voto, dall’altra ha favorito il successo di movimenti in rottura, presunta o reale, col sistema vigente, maggiormente capaci di catturare, anche attraverso l’uso di una ingegnosa strategia comunicativa, il favore delle fasce più colpite dal peggioramento della condizione socio-economica, quindi maggiormente desiderose di una soluzione rapida e più inclini ad accettare eventuali ripercussioni dissestanti l’equilibrio generale a loro sfavorevole.

Ciò ha generato che i partiti del grande centro, ove recuperare il consenso di queste fasce di popolazione, si siano in parte risolti nell’adozione di un linguaggio di stampo sempre più propagandistico e semplificatorio, spostando ulteriormente il baricentro della discussione politica dal confronto dialettico di proposte concrete allo scontro di vessilli para-ideologici e di suggestioni emotive, frequentemente rivolti a cavalcare i timori della cittadinanza, piuttosto che a quietarle ponendo rimedio alla situazioni concrete che le generano. Da ciò è derivato il crescere dello scontro sociale e politico, alimentato da tensioni che non pare si tenda a razionalizzare.

Le delicatissime questioni dei migranti e del terrorismo sono ovviamente catalizzatori eccellenti di questi processi, i quali hanno fortemente contribuito a far virare per lo più a destra l’insorgenza dei moti di rottura. Da par loro nuovi partiti centristi o di centro-destra, si sono consolidati come forza principale di governo, auto-legittimandosi come unico argine democratico contro l’inondazione populista.

Questo andamento si è confermato in quasi tutti gli ultimi cicli elettorali, fatta eccezione per il Portogallo e la Nuova Zelanda.

Nel primo caso è presente una coalizione di minoranza di centro sinistra, guidata dal Partito Socialista di Antonio Costa19, similmente a quanto accade in Svezia20, dove il Partito Social-Democratico di Stefan Löfven è a capo di una coalizione di governo bicolore insieme al Green Party, che conta in parlamento su soli 138 seggi su 34921.

In Nuova Zelanda invece la neo-eletta leader laburista Jacinda Arden guida un gabinetto formato dal Labour Party, dal Green Party ed dall’indipendente partito nazionalista e conservatore New Zealand First Party di Winston Peters, il quale ricopre il ruolo di Ministro degli Esteri22. Visti i risultati elettorali23, tale compromesso si è rivelato essere l’unico modo per formare un esecutivo che escludesse i conservatori classici del National Party guidato da Bill English, nella speranza di poter fornire un impulso riformatore alla politica economica e sociale, sul modello, mutatis mutandis, dell’alleanza tra Syriza e ANEL in Grecia24.

Oltretutto, segnatamente in Europa, accanto agli elementi già detti, a contribuire alla decrescita dell’affluenza elettorale e al contestuale aumento di moti di protesta, spesso conservatori, contribuisce il fattore del trasferimento in capo alle istituzioni dell’Unione Europea di una parte fondamentale della sovranità statale legata per lo più all’ambito delle manovre economico-finanziarie. Istituzioni che possiedono l’aggravante di un significativo deficit di rappresentatività democratica, in ragione delle loro peculiari struttura e funzionamento.

In particolare, rileva il fatto che il Consiglio dell’Unione Europea, l’organo con più poteri in ambito sia legislativo che di direzione, sia formato da rappresentanti di governi nazionali eletti su una base elettorale sempre minore e spesso guidati da una coalizione frazionata e instabile.

Al netto delle considerazioni effettuate, è inoltre d’uopo evidenziare come i tentativi di recuperare i consensi della popolazione non votante raramente si traducono nella concreta proposta di un programma riformativo, ad esclusione di rari esempi quali il Labour Party di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, dove non a caso vi è stato alle ultime elezioni un aumento sia dell’affluenza alle urne che della partecipazione dei giovani, in quota maggioritariamente laburista25.

In generale, si ha la sensazione infatti che prevalga l’interesse a mantenere una posizione di leggera prevalenza rispetto all’avversario, all’interno di uno spettro elettorale formato in buona parte dal ceto economico-sociale medio o medio-alto, poco interessato a manovre redistributive e ai diritti sociali, quando non direttamente contrario, e invece molto più ben disposto verso i diritti civili. Ciò potrebbe in parte spiegare la recente apertura dei partiti storicamente conservatori come i Tories britannici verso questo tipo di diritti, un tempo all’attenzione dei soli progressisti.

Quest’ultima considerazione circa l’importanza che l’ampiezza e la natura dell’elettorato possa avere sull’adozione di determinate decisioni politiche, ci permette di formare una riflessione inversa e complementare relativamente alle ipotesi secondo cui è il contesto socio-economico ad essere uno dei fattori principali che influenzano la partecipazione al voto. Un’ampia letteratura è tesa a dimostrare infatti come la corrispondenza fra questi elementi sia probabilmente biunivoca.

Alcuni studi evidenziano ad esempio come a una maggiore partecipazione al voto corrisponda un aumento della tassazione per i redditi più alti, con la media di un punto di aumento d’imposta per ogni 2,5 punti di crescita dell’affluenza per quanto riguarda i paesi OCSE26, nei quali non a caso dagli anni Settanta ad oggi la tassazione media è diminuita dal 65% al 42%, in linea con la forte decrescita del numero di votanti27.

Altri ricerche giungono a dimostrare quanto peso possa avere la partecipazione elettorale nel direzionare la politica di governo, soprattutto per quanto riguarda le politiche di supporto alle minoranze28.

Se da un lato vi sono molte prove a sostegno dell’incidenza del voto soprattutto su questioni relative ai rapporti di classe, a margine di questa serie di osservazioni, è però doveroso evidenziare che anche nei momenti di grande affluenza nella maggior parte dei paesi occidentali il baricentro dell’ideologia politica prevalente e la maggioranza parlamentare espressa fossero pur sempre state più frequentemente sbilanciate verso destra.

Oltretutto accanto alle questioni dei diritti sociali, dei quali si è ampiamente discorso, ve ne sono numerose altre legate alla politica estera, ambientale, di sviluppo tecnologico e di promozione della cultura, tutte fondamentali nel definire un’identità politica progressista, sulle quali è più difficile demarcare una linea di definizione tra classi sociali.

Ciò non inficia affatto tutti i ragionamenti finora effettuati, ma apre una finestra di studio sul sostrato culturale e sociologico generale della popolazione e sulla percezione della realtà che ne deriva.

Una ricerca statunitense29 offre un interessante spunto d’analisi in merito a tale questione, poi ripresa in forma simile anche da “The Atlantic”30, evidenziando come alcuni deficit di conoscenza o erronee percezioni aprioristiche, diffuse in tutto il corpo elettorale, senza distinzione di ceto economico, siano fortemente incidenti nell’inficiare una realistica interpretazione del contesto sociale e politico. Negli esempi addotti si mostra come sia gli elettori democratici che repubblicani, con poche differenze per fasce di reddito, ritengano la distribuzione della ricchezza tra i vari quintili negli Stati Uniti ben più equa di quanto in realtà sia e descrivono come ideale una distribuzione più egualitaria di quella presente in Svezia, dicendosi però al contempo maggioritariamente contrari a un modello socialista o social-democratico.

Tali ultime questioni aprono un altro complesso ambito d’indagine contiguo alla sociologia e alla psicologia, tanto quanto alla filosofia e alla politica. Un panorama fin troppo esteso e variegato per essere analizzato nello spazio dedicato alle laconiche conclusioni riassuntive di un breve articolo atto a descrivere invece alcuni orditi fondamentali dei flussi elettorali e le fitte trame socio-istituzionali che con loro disegnano il variopinto tessuto della rappresentanza democratica.


Note


1
I dati elettorali citati nel presente articolo sono forniti dall’International Institute for Democracy Electoral Assistence, salvo diverse indicazioni che verranno fornite puntualmente. Qui il link al database.

2 L’indice di Gini del Belgio è tra i più bassi al mondo, pari a 28,1, mentre quello del Regno Unito è pari al 34.1, stanti i rilievi del 2014, secono i dati della Banca Mondiale. Qui la fonte dalla quale è possibile consultare questo e molti altri indicatori socio-economici.

3 L’indice di Gini è passato da 34.6 nel 1979 a 41 nel 2013, secondo i dati della Banca Mondiale. Qui la fonte. Per avere invece accesso al report completo stilato dal Census per il 2016, ecco il link.

4 Indice di Gini pari a 34.7, secondo i dati della Banca Mondiale. Qui la fonte.

6 Ivi, p. 24, trad.it.

7 Cfr. Ivi, pp. 11-12, 23

8 Ivi, pp. 12-13, 23

9 Cfr. Ivi, pp. 16, 20

27 Ivi, p. 24

Un commento a “I numeri dell’affluenza. Trame e orditi della rappresentanza democratica”

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