Interventi

Foto di Erich Westendarp da Pixabay

Europa, impossibile e imprescindibile. Così la definì anni fa Ida Dominijanni, ad un seminario di Sinistra Europea. Appropriata allora, si conferma sempre più vera, nell’emergenza pandemia.

Come stare in questa stretta? La prima condizione è tenere aperto il negoziato. Certo, non a tempo indeterminato. Ma considero un risultato politico che la stretta non si sia chiusa, in una direzione o nell’altra. Viceversa chi si affretta a giudicarlo fallito, con una sconfitta netta per l’Italia, e il gruppo di paesi suoi alleati nella proposta di adozione di politiche e strumenti innovativi, ha già deciso per l’Europa impossibile. E questa volta – è uno dei pochi giudizi unanimi – si tratterebbe del fallimento non solo della UE che c’è, ma del progetto stesso di Unione Europea. Allo stesso modo, chi considera che la svolta necessaria c’è già stata, ed il negoziato ha questo segno, ha già deciso che non si può prescindere dall’Europa che c’è, quale che siano i costi. E non parlo solo di quelli economici, ma del rigetto sociale, e dell’implosione politica.

Tenere aperto il negoziato, vuol dire far leva su quello che è già cambiato, o sta cambiando, senza darlo per acquisito. E soprattutto avendo ben presente che l’esito dipenderà dalla chiarezza e fermezza su alcune priorità, non solo per l’oggi, ma per il futuro. Nomino per brevità le discontinuità più significative. I vincoli del Trattato di Maastricht, su cui poggia la politica di austerità, ovvero la bussola che ha determinato la rotta seguita dall’UE, sono stati “sospesi”: si badi non cancellati. “L’epidemia di Covid-19 ha rimosso – almeno per il momento – il feticcio della politica economica dell’UE: l’austerità”, scrivono Matteo Lucchesi e Mario Pianta, in un articolo su Sbilanciamoci! (L’Europa senza rotta, 10 aprile) che esprime un giudizio severamente negativo sul negoziato.

Sono rapidamente rientrati i tentativi di Christine Lagarde di ricondurre la Bce dentro i vecchi binari, mandando in soffitta la politica adottata da Mario Draghi per far fronte alla crisi finanziaria del 2007-08; tanto più necessaria oggi, ma altrettanto insufficiente, non solo sul piano della quantità di risorse monetarie, ma perché, appunto, ripara – in parte, e in modo disomogeneo – i danni, ma non investe i vincoli dell’austerità.

Si è incrinato, ma non è stato spezzato, l’asse franco-tedesco che ha fin qui avvantaggiato la Germania. A conferma che La questione tedesca (lo mettemmo a tema nel convegno Ars-CRS del 2016) ha condizionato pesantemente impianto e politiche della UE. Ha scritto giustamente Federico Fubini su Il corriere della sera (5 aprile) che è la Francia a giocare il ruolo decisivo tra i due opposti schieramenti: quello di un cambio di rotta – da verificare quanto parziale e, soprattutto se a termine o no – e quello della rigida conservazione. Parigi dialoga con Berlino per indurla ad accettare una mediazione.

Ultimo, rilevante, cambiamento che in Germania si è incrinato vistosamente il fronte compatto, trasversale, sul rispetto dei vincoli di rigore e austerità. La frattura è esemplarmente rappresentata da due fra i principali giornali, Die Welt e Der Spiegel. L’invito del primo alla cancelliera Merkel di non cedere all’Italia, pena regalare soldi alle mafie, è stato ripreso da tutti i media, oltre che oggetto di un singolare, quanto inopportuno, appello del ministro Di Maio al governo tedesco di reprimenda del giornale. Poco o nulla si è prestata attenzione alla pubblicazione su Der Spiegel di articoli di segno opposto, tra i quali ricordo quello a doppia firma Sigmar Gabriel e Joschka Fischer, entrambi ex ministri e l’intervista all’ex cancelliere della Spd Gerhard Schröder (Paolo Valentino sul Corriere della sera del 10 aprile). Vi sono stati diversi appelli per una politica di solidarietà europea, firmati da intellettuali e politici tedeschi, e preoccupazioni sono state espresse anche dal settore industriale. A questo mondo fa riferimento Annalena Baerbock, leader dei Grunen, nell’intervista di Tonia Mastrobuoni su la Repubblica (10 aprile), sostenendo che è “interesse tedesco sostenere l’economia italiana e spagnola”, per i profondi intrecci che la legano a quella tedesca. Ed è Baerbock a smentire l’immagine di una Germania compatta definendo feroce, il dibattito nel paese sui coronabond.

Sono segnali certo, che non si sono ancora tradotti in scelte chiare. Ma se ne trovano traccia nell’accordo dell’Eurogruppo, a cominciare dal fatto che ha rinviato le decisioni al Consiglio Europeo del 23 aprile. È

Ma cosa di fatto, potrebbe spostare il baricentro verso un’ Europa non più degli Stati, ma comune? Che agisce come Unione non a parole, ma nell’adozione di politiche condivise, negli oneri come negli obiettivi. Diversamente dal 2008 siamo investiti da una crisi dell’economia reale, dal lato della domanda e da quello dell’offerta. È quanto affermano economisti/e di diverso orientamento. E sono in gioco non solo profitti e crescita, ma bisogni primari, come la salute, il lavoro, l’istruzione, un reddito decente, una casa. E non sono esposte all’impossibilità di soddisfarli, solo le fasce “marginali”, gli scarti di cui parla Papa Francesco, già messi in conto. Sono a rischio imprese, medie e piccoli, lavoratori “garantiti”, ceti medi “benestanti”, dalle professioni al commercio, ai servizi. Non basterà aumentare la cifra dei miliardi da elargire per curare un sistema malato. E non è sufficiente dare prova di solidarietà, per evitare l’implosione dell’Europa costruita da decenni, sul piano economico, sociale, politico, culturale. Bisognerà – bisognerebbe – compiere scelte chiare, nette, per superare l’impossibilità da cui ho preso le mosse.

Non sono a mio avviso il ricorso a questo o quello strumento di politica finanziaria a precludere la strada. Lo ripeto, su questo il negoziato potrebbe anche ottenere risultati positivi. E neppure, anche se più consistenti, lo impediscono i rapporti di forza asimmettrici. Può esserci, come ho detto, una convenienza dei ricchi, in ragione dell’interdipendenza. Favorendo un negoziato più equo. Ma questo non darebbe alcuna garanzia per il futuro dell’Europa. A cominciare dall’economia. Difficile è infatti rimuovere l’ideologia neoliberista e l’austerità che ne è figlia.

Ma l’ostacolo principale è l’assetto istituzionale dell’UE, ovvero il primato del Consiglio dell’UE sul Parlamento e sulla stessa Commissione. Finché saranno i capi di Stato e di governo a decidere le politiche europee, è inevitabile che l’interesse nazionale li condizionerà. Determinando, di volta in volta, equilibri e bilanciamenti diversi.

Vi sono stati segnali fin troppo inquietanti a conferma di quanto è fragile l’edificio Europa. E di quanto sia carente una cultura politica di condivisione e cooperazione. Si è scritto molto sulla civiltà europea, si è fatto ricorso, in questa emergenza, come in altre, ai “valori” che la qualificano. Non mi esprimo su questo, anche se è questione cruciale. Mi limito a rilevare che questa comune civiltà non ha prodotto una cultura politica comune. Non si è neppure tradotta in una democrazia europea, basata su una cittadinanza europea, e sulla corresponsabilità, nella distinzione di poteri e funzioni, tra sedi di rappresentanza e sedi esecutive.

Ma vengo ai segnali del prevalere dell’Europa degli Stati sull’Europa comune. Il primo. Di fatto è stata sospesa la Convenzione di Schengen. Bloccata la circolazione delle persone, il primo se non il solo “diritto” di cittadinanza europea, le frontiere sono rimaste aperte, non senza eccezioni e problemi, solo per le merci. Un’Europa che ha preso le mosse dal mercato, continua a mettere il mercato al primo posto.

Secondo. Per sostenere il ricorso al Mes e agli strumenti esistenti, si ricorre all’urgenza. Adottarne di nuovi allungherebbe i tempi, perché ogni governo dovrebbe avere l’approvazione nel proprio paese. Non è previsto che possa essere il Parlamento europeo la sede di confronto e ratifica.

Il terzo è il più significativo. La cancelliera Merkel ha dichiarato che non può esserci debito comune, da qui il rifiuto degli eurobond. Dunque di quale politica europea si parla, se non se ne condividono oneri e rischi? Se ogni paese riceve in misura di quello che dà e degli oneri che si assume? Anche se la Germania dovesse accettare i “coronabond” – cioè a termine – o il “Recovery Fund”, come proposto dall’Eurogruppo, con titoli garantiti dal bilancio UE, modificandolo. Scelta non facile né tanto rapida, come si dice. Ma non è questo che mi preoccupa. Sarà infatti un bilancio “di emergenza”, e dunque il ricorso a titoli europei è a termine. Insomma dietro i nomi dei diversi tipi di titoli, resta, ma celato, l’interdetto al debito comune, previsto invece dagli “eurobond”.

Dirlo non porta inevitabilmente ad un giudizio negativo. Ma serve a vedere l’ostacolo per quello che è. Serve a stabilire il giusto rapporto tra l’emergenza e il futuro che apre. Un futuro che non è già scritto, dipende appunto dalla consapevolezza di quello che è in gioco, e dal farne discendere le scelte Di una sola cosa sono convinta. Con l’Europa che c’è non si esce dalla stretta tra impossibilità e imprescindibilità. Il futuro potrà muovere in direzioni opposte,verso una progressiva dissoluzione dell’Unione, o verso la sua ricostruzione.

Per muoversi in questa direzione non basta però discutere e decidere sugli strumenti finanziari, quali, quanti, a chi, miliardi mettere nel piatto. Non basta neppure indicare la destinazione delle risorse: sanità, disoccupazione, sostegno alle imprese. È impensabile una politica della salute europea? È impensabile una politica fiscale, almeno in parte, europea? È impensabile un salario minimo europeo, e un reddito di base universale? È impensabile individuare i diritti essenziali di una cittadinanza europea? È impensabile una politica europea di accoglienza dei migranti e regolarizzazione degli immigrati? Vedo già l’insofferenza di politici, governanti, opinionisti… Utopie, fughe in avanti, pensiamo all’oggi. Una volta tornati alla normalità, chi vorrà, potrà esercitarsi a rispondere.

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3 commenti a “Opportunità e rischi del negoziato europeo”

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