Interventi

Ringrazio per questa occasione di confronto, significativa perché interrompe il corso delle cose e del discorso pubblico.

Formulerei così il tema che ci è stato proposto: si può e come coniugare al presente il comunismo? E può e come il femminismo contribuire a farlo?

A questa seconda domanda la mia risposta è che può proporsi di farlo. Non siamo più nella situazione di dover operare un taglio, ovvero di togliere credito alla tradizione politica del movimento operaio, e alla teoria marxiana, per dare spazio, simbolico e politico, al pensare differentemente delle donne.

C’è una sedimentazione di pensiero e di esperienza e, proprio per questo, porsi la questione del comunismo può essere generatrice di un salto ulteriore nel pensiero e nella pratica delle donne.

Coniugare al presente il comunismo, vuol dire innanzi tutto porsi l’interrogativo di come rilanciare, nel contesto attuale, la rivoluzione simbolica, compiuta Marx e, dopo di lui dalle femministe della differenza. È questa l’eredità di Marx che abbiamo raccolto: non quella della scienza del capitale, ma della creazione di un significante inedito, quello della “lotta di classe”. Un significante che ha interrotto l’ordine del discorso e l’ordine sociale, mutando il rapporto fra presente passato e futuro e generando rivoluzione nella realtà. Senza quella rivoluzione simbolica non ci sarebbe stato Lenin né il ’17 ed il Novecento non sarebbe stato il secolo che abbiamo conosciuto.

Creare un significante è qualcosa di più e di diverso da elaborare una teoria; fa sì che il pensiero generi un differente modo di essere della realtà. Ed è quello che ha fatto anche il femminismo in discontinuità con la rivoluzione marxiana. Ma contribuendo a liberare Marx dalla “mitizzazione dei fatti”1, ovvero dal peso della storia fatta in suo nome, che inevitabilmente chiude e conclude la potenza rivoluzionaria del simbolico.

Comunismo e femminismo hanno come matrice comune il “materialismo ontologico”, non dialettico né storico. Con materialismo ontologico intendo che il corpo, la materialità dell’esistenza, non sono un dato empirico, rispetto a cui innalzarsi, ma sono il luogo stesso della politica.

Non posso qui addentrarmi, ma differenza sessuale e differenza operaia muovono da una materialità che è qualcosa di più e di diverso dalla condizione di sesso, o di classe, determinata dai rapporti sociali. Non sesso e/o classe, ma corpi al lavoro che vanno rinominati, risignificati, rivisti, nel senso di posti sotto l’occhio del pensiero.

Differenza sessuale e differenza operaia hanno un avversario comune nell’universalismo, che riduce la differenza a specificità, a pluralismo sociologico, a condizione particolare. L’universale è il significante della classe borghese, e della sua logica inclusiva, mentre differenza è il significante della parte che si oppone e contrasta l’inclusività come unica, indistinta, prospettiva di progresso.

Da qui io leggo il ‘900, e l’evento cruciale che segna l’intera epoca e si protende fino al nostro tempo, se sappiamo sottrarci al manto della rimozione caduto su quell’evento nell’89. Parlo della rivoluzione del ’17 e dell’“esperimento profano” che inaugura2. Quell’esperimento profano non è circoscrivibile, concluso nello spazio e nel tempo dell’Unione Sovietica e dei socialismi realizzati; è stata una frattura epocale che ha segnato il corso del secolo nel mondo.

E, ancora oggi, capire l’esperimento profano è politicamente necessario, se vogliamo capire il nostro presente. Come siamo arrivati qui, a questa forma di capitalismo globale che sembra aver liquidato definitivamente quel secolo. E con il secolo, la rivoluzione, ovvero un modo di intendere e praticare la trasformazione non come miglioramento, aggiustamento costante di una forma di società e di rapporti tra gli esseri umani, ma come trasformazione radicale: rivoluzione appunto.

Cambiare il mondo, cambiando i rapporti tra gli esseri umani a partire dal basso, questo è stato il ‘17. Agendo un potere differente non solo perché agito dai “senza potere”, ma per i differenti luoghi, e le differenti modalità che assume. Voglio dire che non è lo stesso potere che, semplicemente, cambia di mano. È il possumus di Hannah Arendt3, ovvero l’azione politica in prima persona e con altri ed altre, che nel ’17 vince, si afferma, ed è stata pratica del movimento operaio nel ‘900. Ed è cosa affatto diversa dalla conquista del Palazzo d’inverno. Presenti entrambi nel ’17, sono due modalità della politica che non coincidono, anzi molto presto divaricano.

Il prevalere della seconda sulla prima è la matrice prima del fallimento dell’esperimento profano; matrice leninista, e non solo stalinista. La concentrazione del potere, l’obiettivo della stabilizzazione dell’esperimento dall’alto, affidata alla direzione, al governo, ha comportato la compressione e la riduzione del differente potere che agiva dal basso. È una contraddizione che resta aperta nella politica del movimento operaio. Ogni volta che diciamo partito, Stato, governo, progetto, evochiamo questa contraddizione irrisolta.

Il fallimento arriva a compimento, si rivela cioè compiutamente tale molto dopo, appunto nell’89. Fino all’89 la potenza geopolitica dell’Urss lo nasconde. Ed è senza dubbio un effetto di quella potenza, oltre che della capacità trasformativa del ’17, che il ‘900 sia stato contrassegnato, anche in Occidente, dalle istanze socialiste. Nella forma del compromesso socialdemocratico, del Welfare State e di tutto quello che la parola welfare evoca.

Una prima conclusione che voglio trarre è che riproporre nel presente la rivoluzione vuol dire lasciare da parte il riformismo, come la sola politica di cambiamento. Detto altrimenti, oggi è tempo di rivoluzione o è tempo di riformismo? Contrastare il neocapitalismo liberale, chiede di pensare e praticare rivoluzione o di pensare e praticare miglioramenti progressivi? Io penso che la prima domanda sia quella giusta da porsi, perché anche il riformismo novecentesco è fallito, ed oggi assume le sembianze di una ripetizione, inerte ed inefficace, delle politiche dei cosiddetti 30 anni gloriosi. Come se non si sappia e non si possa fare altro che tornare al passato.

Questa attitudine ripetitiva a me pare il segno di un’interiorizzazione del fallimento che impedisce di guardare oltre, di fare i conti con la sconfitta. È un punto cruciale per capire cosa è accaduto nell’89, quando il fallimento è stato conclamato. Si è dichiarato non più praticabile, e nemmeno pensabile, un ordine di senso e un modo d’essere della realtà differente da quello esistente. Non solo la rivoluzione, ma lo stesso riformismo, inteso come processo graduale di modificazioni strutturali, è stato relegato al passato. Di conseguenza l’azione politica si è sempre più ristretta a gestione dell’esistente, compito dei poteri istituiti, attività di governo. E non più agire politico condiviso, volto a mutare l’ordine dato. Da qui, penso, l’ ansia inesausta, della sinistra politica, a rimotivare la propria funzione, come governo, e la sua crescente incapacità a praticare la “politica di massa” che è stata la sua forza nel passato. E, soprattutto, a produrre un differente pensiero sulla realtà. Questo è, credo, l’effetto più deleterio della scomparsa dal suo orizzonte dell’idea stessa di rivoluzione .

Vengo alla domanda, proposta dal collettivo C17, per questo confronto: “Quali sarebbero stati i momenti in cui poteva andare diversamente?”. La mia risposta è gli anni ’60. Non penso solo al ’68, anzi credo che bisogna guardare oltre l’insorgenza del ’68, a quel passaggio, a metà degli anni ’60, in cui si condensano conflitti, agiti da differenti soggetti, portatori di differenti istanze di mutamento radicale.

A metà degli anni ’60 l’intera situazione mondiale, non solo italiana, si dischiude e si pone, anzi si impone, alle soggettività, la possibilità di agire nuove forme di libertà, trasformando prima di tutto se stesse. Tra il ’64 ed il’68/’69, emerge una pluralità di soggetti che, in contesti diversi, agiscono un cambiamento, esistenziale e politico: nei luoghi del lavoro, dalla fabbrica ai servizi, nei saperi, nei rapporti tra generazioni e nei rapporti tra i sessi; nella società civile come nella famiglia; sul Vietnam, come sulle lotte anticoloniali, e poi su Praga. È la contestazione dei processi di modernizzazione che esplode negli anni ’60. Anche qui c’è una rivoluzione, decisiva, del pensiero. Operai e capitale di Mario Tronti è del ’66, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse è del ’64, La mistica della femminilità di Betty Friedan del ’63, il Manifesto del DEMAU del ’664.

Questa insorgenza di conflitti crea una convergenza fra pratiche di trasformazione della soggettività e del mondo, su contraddizioni che segnano diversi contesti ed hanno una rilevanza mondiale. Bene, ovunque trova una resistenza, direi il suo punto di arresto nella sinistra politica tradizionale. Non c’è partito, né socialista, né comunista, né democratico, che non si opponga a questa trasformazione, con l’effetto di rinchiudersi sempre di più nel sistema politico istituzionale, perdendo contatto con la società. Questo porterà ad una divaricazione tra la politica istituzionale e la politica agita in prima persona, che in Italia troverà un punto forte di contrasto nel ’775.

Chiudo con una breve notazione. Per me comunismo è innanzitutto libertà come scrive Marx ne Il Manifesto del partito comunista, il libero sviluppo di ciascuno come condizione per il libero sviluppo di tutti e tutte. Attenzione, non viceversa. Non è la totalità che libera, ma è la libertà di ciascuno/a che crea la comune e condivisa condizione di libertà per tutte e tutti.

La libertà è un imprevisto aprirsi di possibilità di azione, questo significa che il comunismo non è una meta, un progetto/programma predefinito da realizzare, ma è un farsi nello scambio tra simbolico e materialità. Compito comune come compito singolare, afferma Cesare Luporini6, ed è sempre contraddistinto da un’istanza critica, pratica e teorica. Lo dico con Michel Foucault “Come non essere governati, non in questo modo, in nome di questi principi, in vista di questi obiettivi, attraverso questi procedimenti e a questo prezzo”7. Questo fa si che il comunismo è quel movimento che contrasta i processi di normalizzazione, di riconduzione all’ordine costituito di tutte le spinte delle soggettività a praticare una modificazione rivoluzionaria.

1 Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, p.59
2 Rita Di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Roma 2012
3 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.
4 Mario Tronti, Oprai e capitale, Einaudi, Torino 1966; Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. Einaudi, Torino 1964; Betty Friedan, La mistica della femminilità, Ed. Comunità, Milano 1963; Demau, Manifesto programmatico, in Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma 1978.
5 Su questo rinvio al mio Le donne e i giovani. I movimenti in Italia negli anni Settanta, in Con Carla Lonzi, Ediesse, Roma 2014.
6 Cesare Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Sansoni, Firenze 1945.
7 Michel Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p.38.
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