costituzione-italianaRepubblica presidenziale, stato d’eccezione, sindrome di Weimar, rottura del modello parlamentare… Di tutto e di più si è appreso dal dibattito politico svoltosi, in queste settimane, segnate dalla crisi di governo. Vecchie (e stravaganti) teorie costituzionali sui poteri del Presidente della Repubblica sono tornate improvvisamente al centro del confronto istituzionale. E c’è addirittura chi non ha esitato a rintracciare accurate soluzioni finanche nelle pieghe della prassi parlamentare in voga ai tempi dello Statuto Albertino. E la Costituzione repubblicana? Paradossalmente se ne è parlato poco, per la semplice ragione – si è detto – che è la stessa Costituzione a parlare poco del processo di formazione dei governi. E in ciò c’è del vero: i costituenti, confidando nell’autonomia della politica, hanno evitato di irrigidire eccessivamente le procedure di composizione degli esecutivi. Ma nonostante le disposizioni vigenti in Costituzione siano alquanto scarne è ad esse che dobbiamo guardare per ricavare quelle tracce, quelle indicazioni di fondo, questi segnali oggi indispensabili per uscire dall’attuale condizione di stallo.

In base alla Costituzione, il Presidente della Repubblica, preso atto dell’esito elettorale e delle indicazioni espresse dalle forze politiche, procede alla nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri (art. 92). Questi, dopo aver giurato (art. 93), devono entro dieci giorni presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia (art. 94). Qualora però la formazione di una nuova maggioranza politica risultasse problematica e il Presidente della Repubblica, nonostante gli insistenti tentativi esperiti, ritenesse impossibile dare vita ad un nuovo governo, non vi sarebbe altra soluzione che procedere a un nuovo scioglimento delle Camere (art. 88). Ogni altra decisione rischierebbe solo di incrementare la condizioni di paralisi e di caos all’interno delle istituzioni.
Tuttavia, nella situazione venutasi determinando all’indomani dell’elezioni del febbraio scorso, questa opzione non poteva essere giuridicamente esperita: la Costituzione vieta espressamente ad un Presidente della Repubblica “indebolito” nei suoi poteri (perché prossimo alla scadenza del suo incarico) di “esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato” (art. 88 Cost.). A quel punto due erano le strade che il Capo dello Stato aveva di fronte a sè: 1) dimettersi per consentire ad un nuovo Presidente della Repubblica di affrontare nella pienezza dei suoi poteri la crisi ed eventualmente esercitare quel potere di scioglimento che la Costituzione gli aveva sottratto; 2) incaricare il capo della coalizione che aveva ottenuto il maggior numero di voti nei due rami del Parlamento, attribuendogli un mandato “aperto”.
Aver vincolato il tentativo Bersani a un “sostegno parlamentare certo” non si è rivelata una scelta lungimirante sul piano delle dinamiche istituzionali. Per almeno tre ragioni: a) a fronte di un Parlamento non più rigidamente strutturato sul piano politico, non più bipolare ed anzi permeato dalla presenza di forze nuove (alcune delle quali chiamate a misurarsi per la prima volta con la realtà parlamentare) il confine tra certo e incerto è quanto mai labile: l’elezione dei Presidenti di Camera e Senato docet; b) si è detto che il Capo dello Stato, optando per questa soluzione, abbia voluto evitare che un governo sprovvisto di un “sostegno parlamentare certo” potesse essere sfiduciato sul nascere. Una valutazione, questa, certamente fondata, riguardo alla quale dovremmo però anche chiederci: cos’è preferibile, dal punto di vista democratico e costituzionale, un governo di ordinaria amministrazione espressione di forze politiche che (seppur di poco) hanno prevalso nelle ultime elezioni politiche o un governo espressione del vecchio Parlamento del quale oggi (anche politicamente) non vi è più traccia? È più affidabile per i mercati (argomento, questo, quanto mai improprio, sebbene oggi ossessivamente utilizzato anche in ambienti istituzionali e da illustri costituzionalisti) un governo guidato dal segretario del primo partito italiano o da un Presidente del Consiglio la cui coalizione che portava il suo nome ha, nelle ultime elezioni, superato a stento il 10%?; c) il voto di fiducia non è un inutile doppione della nomina presidenziale. Ad attestare il sostegno ad una determinata compagine di governo è solo il Parlamento o meglio, se si vuole essere più precisi, ciascun membro del Parlamento chiamato ad esercitare le sue funzioni senza vincoli di mandato (art. 67).
Non aver scelto tra queste due opzioni (dimissioni presidenziali o incarico a Bersani) ha trascinato il procedimento di formazione del governo nell’attuale fase di stallo. Stallo nelle consultazioni, nelle trattative tra le forze politiche, nelle procedure costituzionali.
Di qui il delinearsi di una condizione di evidente impasse politico e costituzionale che neppure la soluzione escogitata dal Presidente della Repubblica di procedere alla nomina dei cd. “10 saggi” appare in grado di risolvere. Ne sono oggi più che mai persuasi le forze politiche, i suoi componenti (si vedano le dichiarazioni rese da Onida, ancor prima dell’incidente “radiofonico”) e finanche lo stesso Presidente della Repubblica che nel ricevere i due gruppi di lavoro al Quirinale ne ha contestualmente limitato le ambizioni, i tempi di lavoro, i poteri.
La decisione presidenziale non ha pertanto sortito gli effetti sperati, né avrebbe potuto. Si è trattato di un mero espediente utilizzato per allungare i tempi della crisi e in quanto tale non solo carente sul piano della legittimazione costituzionale, ma del tutto sprovvisto di realismo politico: perché mai il nuovo Capo dello Stato dovrebbe esercitare i suoi “compiti” a partire dal “materiale utile” fornito dai cd. saggi? E perché mai dovrebbe sentirsi condizionato da personalità che non ha scelto, né le forze parlamentari votato?
A questo punto tocca al Parlamento occupare la scena, riaffermando la propria centralità. Cosa che sarebbe già possibile (in attesa che si addivenga alla necessaria costituzione di un nuovo governo) attraverso l’iniziativa legislativa, l’istituzione delle commissioni, il confronto, l’avvio delle necessarie intese a sostegno di quelle leggi e di quelle riforme divenute oggi sempre più indispensabili sia sul piano istituzionale, che delle tutele sociali.
L’avvio del confronto politico per l’elezione “anticipata” del Presidente della Repubblica va in questa direzione e potrebbe rivelarsi proficuo (e finanche sorprendente) nelle modalità e negli esiti. Ma ad una condizione: che la designazione del Capo dello Stato si emancipi definitivamente dai tatticismi e da consunti schemi della cd. seconda repubblica per divenire anch’essa parte integrante dell’azione di rinnovamento politico di cui la nostra Repubblica ha oggi più che mai bisogno per ritrovare se stessa.

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