pd-rottoCesare Damiano ci ha offerto un regesto prezioso delle politiche sulle quali dobbiamo cimentarci, ma credo sia opportuno tematizzare anche la questione della politica, al di là dell’elenco delle politiche. Quanto a questo profilo confesso che sono molto pessimista. Potrei condensare il mio pensiero parafrasando due righe dell’Orlando Innamorato, due versi che risalgono a 563 anni fà: “la politica, che non se n’era accorta, andava combattendo ed era morta“. A prescindere dalla provocazione, certamente paradossale, il quadro con il quale dobbiamo misurarci resta senza dubbio deprimente.

In effetti l’antipolitica, il populismo regressivo da un lato e l’ apolitica dall’altro – l’assenza di politica che abbiamo constatato anche alle ultime consultazioni amministrative, emblematico il caso di Viareggio dove noi vinciamo con il 78% e vota a malapena un terzo dei cittadini – ci dicono che lo spazio della politica è sempre più contestato, negletto, persino rimosso nel tempo di un linguaggio defraudato ed inespressivo. Twitter in sostanza dice di un cinguettio querulo e svagato, Facebook di un’estetizzazione permanente che si traduce nel “mi piace”; svanisce l’impegno di un discorso pubblico retto sull’argomentazione politica capace di suffragare disegni e progetti. Per questa ragione credo dunque che il tema del partito sia centrale. Per quanto mi riguarda rifuggo da una politica che è sempre più rappresentazione e sempre meno rappresentanza, quella politica contemporanea che si riassume nella democrazia del pubblico, per cui i leaders politici sono gli attori che recitano sulla scena di un teatro di cui i cittadini sono gli spettatori. E così pure ritengo che si debba mantenere alta la soglia di difesa nei confronti di quella democrazia istantanea, senza mediazioni, che abolisce dal proprio orizzonte il tema dei fini, l’obiettivo di una crescita della civiltà della convivenza, quella democrazia per la quale la società civile diventa opinione pubblica che a sua volta si trasforma in audience. Se questa raffigurazione è minimamente probabile allora il partito è a questo punto fondamentale perché soltanto un partito che sia consapevole di se stesso, del suo ruolo, delle sue funzioni, può restituire dignità alla politica e pienezza alle sue ambizioni.
Per quanto riguarda il Partito democratico due sono le derive da evitare. Intravedo infatti il rischio di un Partito democratico che assume le sembianze di una Democrazia cristiana mondanizzata e secolarizzata, un partito sostanzialmente neocentrista. Mi pare di leggere in talune prese di posizione di nostri esponenti, in talune elaborazioni programmatiche un orientamento che persegue, forse al di là delle stesse intenzioni, questa finalità. Su di un altro versante invece il punto d’approdo dovrebbe consistere in una versione aggiornata di un partito neosocialdemocratico. Prima di me, nel suo intervento, Stefano Fassina diceva bene: la stessa Socialdemocrazia, l’Internazionale socialista si interrogano sulle grandi trasformazioni che investono il mondo contemporaneo e riconoscono che l’alveo socialista risulta troppo ristretto, persino soffocante guardando, in vista di una prossima evoluzione, alle esperienze del riformismo che caratterizzano le vicende di molte formazioni politiche e partiti.
Se volessi lanciare una provocazione, che so non tutti anche in questa sede possono condividere, abbandonerei la parola “progressisti” che, tra l’altro, nella vicenda politica italiana, richiama una contingenza non particolarmente felice e sceglierei fino in fondo la dimensione del riformismo, della re-formatio che implica l’impegno della trasformazione, del cambiamento, dell’innovazione.
Ebbene: il nostro partito oggi vive profonde contraddizioni. È un partito impersonale, in quanto non è retto sul carisma mediatico del singolo leader, uno dei requisiti della democrazia del pubblico. E pur tuttavia si manifesta una stridente contraddizione tra il partito impersonale e il partito delle cordate personali organizzate che fanno del Pd un partito delle tribù, un partito arcipelago, un partito condominio, nel quale il posizionamento di ciascuno non coincide chiaramente con la diversità e l’articolazione degli orientamenti e delle prospettive, ma spesso rimanda a fedeltà correntizie di difficile decifrazione.
Diceva bene nell’occasione di un’assemblea del gruppo parlamentare del Senato, Walter Tocci che lui – ma pure io – non capisce qual è la differenza tra dalemiani, bersaniani e giovani turchi. A mia volta non capisco ad esempio qual è la differenza attuale tra cristiano-sociali e bindiani, e potrei naturalmente continuare. La tematizzazione aperta delle prospettive programmatiche, di quale raffigurazione si persegua quanto all’identità e alla vocazione del Pd, di quale giudizio interpretativo si esprima sull’esperienza del Governo costituisce “dunque” il banco di prova di un congresso che non può essere una conta e, tanto meno una regolazione dei conti.
In passato anch’io ho partecipato – ciascuno può recitare il proprio mea-culpa, la propria retractatio -, al dibattito sulla contrapposizione tra il partito liquido, gassoso, leggero e il partito pesante, organizzato, strutturato, insediato sul territorio. Dovremmo invece ragionare di più su di un partito aperto, inclusivo, non arroccato, su di un partito plurale, su di un partito che riconosca – e uso questo termine nella accezione specifica -, la propria primogenitura ulivista. L’Ulivo era, nella definizione originaria di Prodi, un’alleanza politica di governo, un’alleanza tra diversi. Oggi il Partito democratico, che è l’erede legittimo, il figlio naturale dell’Ulivo, non può che essere un partito aperto, un partito plurale, un partito a forte alimentazione etica, che fa dello studio, della ricerca – qualcuno direbbe della propria modernizzazione riflessiva – la condizione della sua stessa iniziativa politica.
Questa mattina leggo un articolo di Vito Mancuso, sempre estremamente stimolante, che mi dice: “La sinistra italiana ha sostituito al marxismo – il fatto a me non disturba poiché non sono mai stato marxista, però non sempre il morto afferra il vivo – il darwinismo”, cioè ci dice che anche noi in qualche misura abbiamo introiettato un’idea della società come esito di una selezione competitiva ispirata ad egoismo appropriativo ed individualismo anomico. Da qui l’esigenza di un partito in grado di alimentare e promuovere un’etica della reciprocità, del vincolo, dell’obbligazione, della prossimità; un partito che sia baricentrico tra società e istituzioni.
Infine qualche battuta conclusiva, qualche titolo, se pur senza svolgimento a motivo della ristrettezza del tempo. In sede congressuale alcune questioni non potranno certamente essere rimosse. Ad esempio un giudizio retroattivo sulla vicenda dei 101 che non può essere letta semplicemente in una chiave di moralità dei comportamenti, ma ripensata in termini politici alla luce degli esiti e delle conseguenze che ha prodotto e forse perseguito: esattamente un governo di grosse coalition, retto da una maggioranza di costrizione, in seguito ad una emergenza frutto di uno stato d’eccezione che non può veicolare oblio, rimozioni, smemoratezze su vent’anni della nostra storia o tanto meno vederci succubi di quella teoria della pacificazione che si regge sulla indistinzione tra berlusconismo e anti-berlusconismo, come se pari fossero.
Infine due ultime considerazioni. Il Partito democratico che abbiamo conosciuto è un partito nato, pensato, da chi l’ha pensato, perché un partito non nasce senza un pensiero, senza un’elaborazione culturale, come attore di un sistema bipolare tendenzialmente bipartitico. Questo sistema oggi non esiste più e quindi il tema della propria collocazione strategica e delle modalità con le quali si rapporta alle altre formazioni politiche è fondamentale. Ciò implica anche un giudizio sui risultati delle recente consultazioni poiché sostenere che la nostra vittoria mutilata in sede elettorale e la nostra sconfitta politica scaturiscono dal non aver agito l’agenda Monti significa esattamente rovesciare la realtà dei fatti. Non nutro rimpianti per le culture utopiche che hanno certamente contraddistinto il lungo cammino delle sinistre, culture, che hanno subito le dure repliche della storia fino allo spegnimento della speranza in una storia che non si realizza. Credo però che se un partito non può essere utopico, non può continuare ad essere atopico, senza luogo, senza rappresentanza sociale, senza missione. E la missione non può che essere duplice: la missione dell’Europa e la missione del lavoro, non semplicemente come operari, come fare, come attività, ma come grande tema dell’espansione personale, della dignità, del compimento e della realizzazione di ciascuna e di ciascuno.

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