1799-3 Ingrao_La Tipo_cop_14-21Verrebbe da dire che il lavoro, qui, è solo lo spunto per una riflessione più ampia. Quella maturata da Pietro Ingrao in decenni di passione militante e fotografata nelle pagine di La Tipo e la notte Scritti sul lavoro 1978-1996 (a cura di Francesco Marchianò, con un saggio di Stefano Rodotà, Ediesse, Collana Carte Pietro Ingrao, 2013, pp. 208, euro 14,00), in diverse fasi del ventennio che coincide con il trionfo neoliberista.

Sarebbe ovviamente riduttivo dirlo, perché, oltre a essere il filo che stringe tra loro gli articoli, le relazioni e gli interventi raccolti in questo volume, il lavoro emerge come dimensione rilevante nel discorso ingraiano sul mondo d’oggi. E, anzi, in questa antologia la condizione operaia sembra assurgere a paradigma della condizione umana, della trasformazione affascinante e inquietante al tempo stesso che il Novecento, con il suo incedere forsennato, ha saputo imprimere alla persona.
Le note trasognate dell’Ingrao poeta, intento a evocare la dissolvenza tra il mondo antico del paese e i tempi moderni del fordismo, tra i bagliori delle albe contadine e le luci della città industrializzata, non stridono con quelle più austere dell’analista, ben consapevole della realtà effettuale che caratterizza i processi e le strutture produttive.
Spirito e corpo sciolgono difficilmente il proprio intreccio. Guardare il lavoro con l’occhio di Ingrao significa deporre la razionalità astratta del freddo economicismo per inquadrare la fabbrica come organismo pulsante nel quale, tuttavia, urge districare l’uomo dalla macchina.
A ricordarlo, si affaccia più volte nel racconto la figura chapliniana di Charlot, emblema della robotizzazione incombente sul mondo contemporaneo e, come scrive Marchianò nell’introduzione (p. 28), di una alienazione “che diventa la lente con cui leggere l’invadenza del lavoro sulla vita del singolo, l’oltrepassamento di quella linea che separa il lavoro come affermazione della dignità, dell’identità e della capacità umana, dalla progressiva perdita della propria autonomia e della propria individualità”.
Quando segnala i rischi della compenetrazione temporale tra lavoro e non-lavoro, che degenererà nella reperibilità permanente del collaboratore della conoscenza, Ingrao non è tanto un profeta, quanto l’attento testimone delle crescenti limitazioni imposte al foro interiore dell’homo faber. Limitazioni che, finora, non sembrano compensate da contropartite materiali in grado di risarcire i lavoratori per la perdita della propria sovranità intima. A ben vedere, il punto del ragionamento non è neanche questo, perché la visione ingraiana trascende la mera rivendicazione sindacale per collocarsi su un piano più strettamente esistenziale. Lo scambio “tu mi dai tot ore di lavoro e io ti do un salario” di cui si parla nell’inedito Sul lavoro notturno e domenicale, “chiede di subordinare non solo il tempo della prestazione lavorativa, ma anche quella sfera – così fragile e così essenziale – che è la nostra vita non lavorativa, e che contiene non solo il sonno, il dormire, il riposarsi, ma i tempi della vita affettiva e amorosa, le zone della relazione sociale e politica, sino a subordinare a sé persino i tempo e luoghi del sacro (p. 198)”.
Parole che rispecchiano ancora il vissuto di molti lavoratori del nuovo secolo, ma rischiano di suonare eccentriche e anacronistiche se calate nel contesto generale di crisi che costringe tante persone al non reddito, o alla sotto-occupazione come stato di incompletezza dell’essere e penuria materiale. In modo beffardo, quel tempo da dedicare all’ozio, una volta rivendicato come prezioso perché scarso, è diventato disponibile in dosi esorbitanti. Ciò, però, non è un accidente della storia, né un dato di realtà che sconfessa il pensiero di Ingrao mettendone a nudo le fragilità predittive. Al contrario, pare l’effetto catastrofico del dispiegarsi nel lungo periodo di una competizione sempre più asimmetrica tra capitale e lavoro, secondo una dinamica evidenziata con tempestività in diversi contributi del libro.
Il realismo dell’analisi ingraiana, rilevato dallo stesso Rodotà, è ben riscontrabile nel brano Governare il riflusso, che nel 1980 delinea il destino apolide della Fiat “oltre le forme dello Stato nazionale” (p. 64), e nei reiterati riferimenti alla vertenza Zanussi Electrolux come fronte su cui il mondo del lavoro prova a resistere al ricatto delle delocalizzazioni. In questo senso, le osservazioni amare del 1980 sulla precarietà del lavoro giovanile, le caustiche invettive sull’affermarsi del leaderismo e del lobbysmo pronunciate nel ‘93, più che anticipazioni, possono essere lette come moniti inascoltati su una deriva già allora evidente, ma che nessuno ha potuto o voluto arginare. L’ “acchiappa nuvole” che “voleva la Luna” sa distinguere il sogno dalla veglia e l’immaginario dal reale, cogliere il segno e la direzione dei processi. Non si può dire lo stesso di chi, nel frattempo, ha alimentato “l’apologia dell’esistente” e oggi assiste inerme al sopravvento degli spiriti animali che popolano le nostre società incivili.

Un commento a “Il lavoro. E la vita”

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